Musica

Quando la filologia musicale diventa ideologia di (impossibile) restaurazione

17 Marzo 2018

Chi si affida anima e corpo alla filologia illudendosi che sia capace di restituirci com’era il passato compie un’operazione di autoinganno. Crede che, oltre a restituirci un testo il più probabilmente vicino a quello pensato dall’autore, la filologia possa anche restituircene la lettura autentica del tempo in cui il testo fu scritto. Le cose non stanno in maniera così semplice e netta. Intanto, in ogni epoca le letture sono tante quanti sono i lettori. Ogni lettore, infatti, trasferisce nella lettura tutto intero il proprio vissuto, e comprende del testo quello che gli fa comprendere la sua cultura. Figuriamoci, dunque, se il lettore non appartiene alla stessa epoca, o allo stesso paese, e dunque alla stessa cultura, dell’autore del testo. Omero, come ci è arrivato, è il frutto di un’elaborazione durata qualche secolo. Victor Bérard ha tentato, per Les Belles Letters, Paris, 1924, di ricostruire l’Odissea dei singoli poemi che la comporrebbero. In realtà il poema, come ci è arrivato, presuppone la mano di un poeta che ha raccolto, rielaborato e costruito infine organicamente tutta la tradizione poetica che ruota intorniai viaggi di Ulisse. Ed è, ancora oggi, l’organicità della costruzione narrativa che ci colpisce e ci affascina. Sappiamo, tuttavia, che la forma in cui i due grandi poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, ci sono arrivati, è stata stabilita all’epoca di Pisistrato (VI sec. a. C.), che ne fece pubblicare l’edizione dalla quale dipendono tutti i testi che ci sono arrivati, per lo più trascritti dai filologi bizantini, ai quali si deve la collocazione degli accenti e degli spiriti. I filologi bizantini si sono serviti delle edizioni approntate dai filologi alessandrini. Ma non solo la tradizione manoscritta dei poemi omerici è complicata, è complicata anche la loro ricezione. Aristotele e Platone certo non leggono Omero come poi lo leggerà Goethe (che lo leggeva in greci), e ancora meno come lo legge Joyce che pure è un lettore non solo raffinato e attentissimo (e anche lui lo legge in greco), ma che addirittura dall’Odissea parte per costruire il suo romanzo Ulysses. Chi volesse analizzare le corrispondenze, strettissime, tra il poema omerico e il romanzo, consulti il sito di questo link: www.sparknotes.com/lit/ulysses.

Con la musica le cose stanno messe in maniera ancora più complicata. Un teorico medievale considera la musica “eseguita” affare trascurabile, vera musica è solo la teoria della musica. In ciò ha il suo peso la distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, che caratterizza gran parte della cultura medievale. Ma è indubbio, tuttavia, che anche oggi ogni musicista ha nelle proprie orecchie non solo la musica del proprio tempo, ma soprattutto i rumori del proprio tempo. Fino a circa un secolo e mezzo fa il rumore più forte era la scalpitio degli zoccoli di un cavallo e lo strofinio sul selciato delle ruote di una carrozza. Ogni tanto si udivano gli spari dei cannoni. In seguito sono venuti i treni, gli aerei, le automobili, le scavatrici, le fabbriche. E questi sono i rumori abituali di un ascoltatore di oggi. Si può ricostruire e riproporre quanto si voglia strumenti antichi, passati per “autentici”, “originali”, non si potranno mai ricostruire le orecchie contemporanee di quegli strumenti, la differenza tra un ascoltatore del XII secolo, ma anche del XVII secolo, e un ascoltatore di oggi è abissale, incolmabile, quell’ascoltatore originale è perduto per sempre. Perfino il pianoforte, tra gli strumenti uno dei più recenti, ha accumulato una memoria sonora immensa. Se si suona una sonata di Mozart l’ascoltatore però non può cancellare dal proprio orecchio la memoria della musica che per lo stesso strumento hanno scritto Beethoven, Chopin, Brahms, Schoenberg, Stockhausen. Anche se per suonare Mozart si usi il cosiddetto fortepiano, l’orecchio di oggi lo percepirà come uno strumento esotico, estraneo. Almeno finché non ci si abitui. E quanto a questo, per fortuna, siamo sulla buona strada. Ma va osservato, tra l’altro, che il termine fortepiano, per indicare il pianoforte del tardo settecento e primo ottocento, è un termine fuorviante che fa pensare a uno strumento diverso dal pianoforte. In russo il termine fortepiano, invece, indica ancora oggi il pianoforte. E allora? Anche io penso che sbagli chi vede nella musica di Bach una musica astratta, ciò non è vero nemmeno per l’Arte della fuga, che è stata pensata forse per una tastiera. Ma già il fatto che non fosse precisato per quale tastiera la dice lunga sul rapporto tra scrittura e suono all’epoca di Bach, e per Bach stesso. L’indeterminatezza dello strumento riguarda anche il Wohltemperierte Klavier: sbagliata la traduzione italiana, formulata sulla traduzione francese, di Clavicembalo ben temperato, si dovrebbe dire, se mai, tastiera ben temperata, perché Bach intende riferirsi a qualsiasi tastiera, e forse per lo studio pensava al clavicordo.

La nostra ossessione timbrica è, comunque, tipicamente moderna, nasce non prima di Berlioz e di Mendelssohn, ed è ignota ai musicisti del passato. almeno nella misura nevrotica di oggi. Si pensi solo alla libertà di scambio tra violino e flauto, nella musica da camera. Il punto allora è forse un altro, e lo restringerei ai soli interpreti. Ce ne sono di quelli che veramente si propongono d’interpretare la musica che suonano, di capirla e farla capire. Ce ne sono altri ai quali la musica che suonano è indifferente, perché a loro interessa solo mettere in risalto quanto siano virtuosi, bravi, che meraviglie riescano a fare sul proprio strumento. E allora che sia Scarlatti o Chopin, Schubert o Ravel, o Liszt, la digitazione è tutto ciò che loro importa. Nei cantanti quest’indifferenza al carattere della musica interpretata è ancora più diffusa. Al di là del loro mito, due tenori come Mario Del Monaco e Luciano Pavarotti mi hanno sembra dato fastidio, proprio perché qualunque cosa cantassero, Verdi, o Puccini, cantavano sempre e solo Del Monaco e Pavarotti. Esempio estremo, l’inascoltabile Idomeneo cantato da Pavarotti a Salisburgo.

Ma avviciniamoci a un esame più serio dei meccanismi di ascolto. Io non posso, per esempio, impedirmi di pensare che, quando vedo e ascolto la discesa di Wotan a Nibelheim, nell’Oro del Reno, Wagner mi fa presentire già qualcosa della musica concreta che sarà di Varèse e di altri. Devo questa intuizione all’interpretazione di Boulez a Bayreuth. Boulez tradiva Wagner? Come così, quando leggo, suono, o ascolto, la Polonaise Fantaisie op. 61 di Chopin, a quei primi fluidi arpeggi, non posso impedirmi di pensare a certo Debussy e perfino al Bartók di Szabadban (En plein air), alla seconda sonata di Boulez, a certi Klavierstücke di Stocjhausen. Non posso impedirmelo. Perché Chopin non è una monade, ma uno dei tanti musicisti che costituiscono la mia esperienza della musica per pianoforte. All’indietro, anzi, non posso non pensare addirittura a Couperin, e al fatto che la prima edizione moderna di Couperin fosse curata da Brahms, che amava i clavicembalisti francesi. L’esperienza della musica è attività complessa, di cui la filologia, benemerita, perché l’arricchisce, è però una minima, infinitesimale esperienza, e se ne diviene l’unica, la impoverisce, anzi la sterilizza

Faccio un esempio estremo: come fai a riprodurre la metrica antica con un orecchio che ha perso la percezione della quantità delle sillabe? Nella scansione del verso greco, o latino, usiamo gli accenti ritmici e facciamo corrispondere la sillaba lunga alla sillaba accentata. E’ una lettura sbagliata e fuorviante. Le lingue antiche non avevano un vero e proprio accento ritmico, come le lingue neolatine e in particolare l’ italiano, ma se mai l’accento antico era più simile un po’ all’accentazione attuale dell’inglese, che di fatti ha mantenuto la percezione della quantità sillabica, come del resto l’hanno mantenuta anche il tedesco e le lingue slave. Ma gli italiani no. Gli italiani hanno una percezione ritmica e non quantitativa delle sillabe e non riescono dunque a distinguere l’intonazione della lunghezza di una sillaba, lunga o breve, dall’accento ritmico delle singole parole. Tanto meno l’italiano riesce a percepire l’accento tonale, che tuttavia persiste in alcune parlate locali, come il genovese, il veneziano e, soprattutto, il napoletano. Si fa leggere l’esametro latino più o meno così: “àrma virùmque canò, Troiàe (o addiritturaTroiè) qui prìmus ab òris (è il primo verso dell’Eneide). Un contemporaneo di Virgilio non ci capirebbe niente. I romani leggevano, infatti, più o meno: àarma virùumque cànoo tròiaae qui prìimus, ecc. distinguendo nettam,ente l’accento tonico della parola dall’intonazione della quantità sillabica e metrica del verso. Infacibile! per un intaliano di oggi. Anche se, a dire il vero, il verso italiano ha accenti suoi che trascurano l’accento della singola parola. Per esempio l’attacco di un sonetto famoso di Foscolo; Forse perché della fatal quïete, l’accetto di “perché” urta con “della” e “fatal” urta con “quiete”, che però è trisillabico, e non bisillabico, e dunque attenua l’urto. L’accento del verso sta naturalmente su “perché” su “fatal” e sulla “e” di quiete. Sull’accento tonale, tipico delle lingue antiche e oggi, per esempio, del cinese, sarebbe ora troppo lungo discutere. Ma Sant’Agostino osserva che i greci tra una “e” accentata e una “e” atona fanno quasi un salto di quinta, per esempio nel nome Ἐλένη, Eléne, oggi Eléni, Elena. E sembrano cantare, invece di parlare. Osservazione acuta, perché anche i greci di oggi hanno un andamento assai musicale nel parlare e l’accento non è così scandito come in italiano. Sui singoli accenti delle parole prevalgono – come anche in francese – gli accenti principali della frase. Ecco perché all’orecchio anche il neogreco è una lingua bellissima.

Lontano da me, comunque, togliere legittimità alla ricerca di una restituzione “filologica” del passato: utopistica, è vero, ci si può avvicinare, ma riprodurlo è impossibile, dovremmo cancellare tutto il nostro vissuto, e tuttavia indispensabile a creare quella tensione tra presente e passato che altrimenti ci risulterebbe impercepibile. Ciò che, invece, non condivido, e non ammetto, è che la presunta ricostruzione ch’è detta filologica (nei fatti irrealizzabile) costituisca l’unico accostamento autentico al passato. E che tutti gli altri modi siano sbagliati. Il rispetto quasi maniacale, più che filologico, del passato – la filologia infatti riguarda solo i testi, la restituzione corretta di un testo è non solo legittima, ma sacrosanta! – la proposta di un’esecuzione che si prefigga di adeguarsi a ciò che sappiamo delle prassi esecutive del passato, sono infatti solo uno dei modi con cui ci si può rapportare al passato. Ma ogni altro modo è legittimo, anche quello che, apparentemente, lo tradisce, lo stravolge, perché invece magari ci fa scoprire aspetti proprio di quel passato, che una lettura miopemente filologica non ci farebbe vedere. Io, per esempio, adoro il Bach dei Swingle Singers (e sono in buona compagnia, lo adoravano Berio, Boulez, Bussotti, Mariolina De Robertis). Ma va precisato, in ogni caso, che qualunque proposta che si autodefinisca fedele alle prassi antiche non sfugge al fatto che tali prassi sono supposte in base a testimonianze di non sempre precisa interpretazione, che va messa in conto la libertà, in ogni epoca, degli esecutori, e che le fonti arrivateci non sono sempre di facile interpretazione e che dunque qualsiasi “fedeltà” si riferisce solo a ciò che sappiamo: la macchina del tempo non la possediamo, ma anche qualora la possedessimo, ci perderemmo davanti a infinite proposte di esecuzioni diverse. Non solo, ma spesso non si avverte una grande differenza tra musiche distanti di oltre mezzo secolo, e noi invece, per esperienza, sentiamo che Chopin non è Brahms. E tra le loro nascite passano solo 23 anni di distanza.

Temo che alla base di questa monomania ci sia ciò che una mia amica filosofa e filologa musicale lamenta, credo a ragione: che ai più dei musicisti, anche sensibili, anche straordinari musicisti, faccia difetto una conoscenza seria, approfondita dei fondamenti dell’Estetica. L’idea che l’arte sia il bello, e un bello intoccabile, vergine, non ha più di due secoli. Per Aristotele l’arte è conoscenza, nemmeno parla del bello, e la dice “più filosofica della storia” (si riferisce alla tragedia, ma sta parlando di tutta la poesia). Due millenni e mezzo di riflessione hanno approfondito proprio questo fondamento dell’arte, più che quello assai più superficiale, della bellezza. Ma l’arte è una forma molto particolare di conoscenza, mette in azione un procedimento del cervello che fa corto circuito tra razionalità ed emozione, ed è per questo che è sbagliato sia un accostamento solo emotivo sia uno solo intellettuale. Come forse è sbagliato per qualsiasi attività umana. Anche per la matematica. Di una dimostrazione i matematici scelgono quella che a loro appare più “bella”.

La musica cambia con le epoche e con le sensibilità. Ecco il punto. Invece d’inventarci un passato inesistente, perché comunque non riusciremo mai a colmare la distanza tra quel passato e noi, a liberarci dell’oggi per calarci in quel ieri, perché non accettare allora questa bellissima tensione tra l’oggi e il passato, perché rifiutare l’esperienza entusiasmante di scoprire nel passato i presupposti di ciò che siamo oggi? E non solo! Ma perché non riconoscere nel passato i nostri problemi, i nostri ostacoli, il nostro quotidiano esercizio del pensiero? Lo stile, i modi di vivere cambiano. Ma quando Edipo, nell’Edipo a Colono, chiede a Teseo: non sapevo che fosse mio padre, l’uomo che uccisi al trivio, che fosse mia madre, la donna con cui ho generato quattro figli, e mi ritengo dunque innocente delle colpe commesse, ma chiedo, allora: perché io? perché io, e non un altro? fa la domanda fondamentale: che cosa mi fa nascere qui e non là, che cosa in una famiglia ricca e non in una povera? perché sono nato greco e non persiano? I greci lo chiamavano Fato. Ma le nostre domande sono rimaste le stesse.

Haydn sembra che provasse ansia, angoscia, davanti a un pentagramma vuoto. Lui che ha composto tanto, 104 sinfonie, 87 quartetti! E’ diversa la nostra ansia, la nostra angoscia prima di scrivere un rigo di musica, un verso, prima di dipingere un quadro? Perché cercare ciò che ci fa diversi e non ciò che ci fa assomigliare? Gli idealisti che vorrebbero rinchiudere nella copia perfetta del passato l’opera con cui si confrontano, in realtà stanno scappando dal presente. Che delusione, allora, il momento in cui scopriranno che è proprio il loro essere uomini del presente che fa capire loro il passato, la diversità del passato. Haydn, per ritornare a lui, questo problema di capire i musicisti che lo avevano preceduto per quello che veramente erano, non ce l’ha mai avuto. Anzi, come a Mozart, gli parevano per certi versi addirittura manchevoli. Mozart ristrumenta il Messiah di Handel, perché l’orchestrazione di Handel gli pareva inadeguata. E aveva ragione. Era inadeguata per le sue orecchie. Anche se era passato solo poco più di mezzo secolo. Ma le proprie orecchie, Mozart le riteneva l’unico strumento attendibile per capire qualsiasi musica, anzi per capire se una musica funziona oppure no. E in questo era tanto più libero di noi!

Si pensi alla libertà di un Falla, che quando sente dalla Landowska riscoprire il clavicembalo, non gli viene in mente di sforzarsi a indagare come suonerebbe Scarlatti su quello strumento, ma pensa subito a quale musica lui stesso potrebbe scrivere per quello strumento. E scrive quella cosa bellissima che è il Concerto per clavicembalo e cinque strumenti. Per Falla il clavicembalo è, insomma, uno strumento vivo, nuovo, mai morto. Perfino Salvatore Sciarrino, perfino Aldo Donatoni hanno scritto per clavicembalo. Troppi clavicembalisti, oggi, e con loro i nostalgici del barocco perduto, invece, ne fanno uno strumento morto, lo strumento di una musica di defunti. Se non si sente Scarlatti come un compositore di oggi – per esempio il suo uso – modernissimo! – dei ritmi spagnoli – non se ne coglie tutta la sua straordinaria vitalità moderna. O si preferisce sentirlo “antico”, “passato”, “irripetibile”? In una parola: ammuffito? C’è un aforisma bellissimo di Karl Kraus in proposito: “Ho una notizia catastrofica per tutti i nostalgici e gli esteti: un tempo la vecchia Vienna era nuova”.

C’è poi una contraddizione, nella posizione di chi vorrebbe ripristinare la purezza originaria dell’antico: molti di questi idealisti del passato restituito affermano, infatti, che quando si suona un pezzo antico o lo si ascolta, con la mente si corre alle creazioni che l’hanno preceduto. Dunque ammettono costoro che esistono dei precedenti! E che quei precedenti fecondavano qualcosa che sarebbe venuto dopo! Ma allora perché non dovrebbe essere lo stesso anche per quei successori? O si vuole fermare la storia in qualche punto, che si considera il culmine (ma poi di che? la storia è un flusso inarrestabile) e da quel punto guardare solo indietro e mai davanti? Negli ultimi straordinari suoi trii Haydn sembra prefigurare Schubert. Non è certo Haydn che anticipa Schubert, ma è Schubert, che, naturalmente, ne trae profitto. Ma perché allora non posso, quando suono, insieme ad altri, o ascolto quei trii, pensare già a Schubert? Se Schubert leggendoli, o suonandoli, vi trovava qualcosa di sé stesso, perché non posso trovarcelo anche io?

C’è un’ironia della Ragione anche in questo sforzo di ricuperare il passato così com’era: ed è che proprio i fondamenti della filologia alla quale costoro credono di attenersi, sono in realtà fondamenti moderni, da essi stravolti, perché trasformati nell’ideologia di un ripristino, una restaurazione impossibile: la musica che si crede così di riportare tale e quale com’era di nuovo alla vita dell’esecuzione, di un’interpretazione autentica perché corrispondente a come l’autore l’aveva pensata e a come veniva allora eseguita, quella musica sta solo nella loro fantasia, non è mai esistita in quella forma. Anche la ricostruzione, come qualsiasi ricostruzione, è solo un’ipotesi, è moderna, e ricostruita con strumenti di pensiero moderni, estranei al carattere di quella musica. In architettura la ricostruzione, oggi, è più visibile, anche perché le nuove scuole archeologiche costruiscono con materiale diverso i pezzi mancanti alla costruzione originale, in modo da far vedere all’osservatore i punti nei quali sono intervenuti. In questo senso, forse, l’opera musicale che meglio ci rende la tensione tra il perduto e ciò che di quella perdita ricuperiamo è Rendering di Luciano Berio, la ricostruzione, amorosissima, di una sinfonia abbozzata da Schubert. Ma Berio non si sogna di completarla: colloca materiale nuovo, fumoso, inafferrabile, come strumenti che deragliano, nelle pagine bianche del manoscritto.

Oppure, per concludere provvisoriamente queste riflessioni, mi piace pensare che i momenti di più alta comprensione della musica di Bach siano gli ultimi cinque quartetti di Beethoven, il quartetto op. 28 di Anton Webern, le Variazioni op. 31 per orchestra di Schonberg. Tutte queste opere sono costruite sul nome BACH.

In coda. La “copertina” è il frontespizio di un’edizione londinese, Novello, di dieci quartetti di Mozart, dal K. 387 al K. 590, curata da Alfred Einstein, che a sua volta riproduce e adatta il frontespizio di un’edizione del 1800, uscita ad Amsterdam, dei tre quartetti cosiddetti prussiani, gli ultimi tre. Ho nascosto di proposito il nome dell’autore, quasi si trattasse di un’edizione di cui si dovesse accertare l’autore. Un gioco e il piacere di un gioco. Proprio ciò che sembra mancare ai troppi e troppo seriosi sedicenti filologi musicali che imperversano tra sale di concerto e case discografiche. I veri filologi si occupano d’altro, e non vanno a sbandierarlo come una novità scientidica ai quattro venti.

 

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