Musica
Ricordo di Luis Bacalov
Su Facebook ho pubblicato un ricordo di Luis Bacalov, appena ho saputo che ci aveva lasciati. Quel ricordo lo ripubblico qui, ampliato, perché abbia maggiore diffusione, ma soprattutto perché mi preme dire ancora altre cose su di lui.
Ieri sera ho saputo da Andrea Penna, ascoltando la radio, che Luis Bacalov ci ha lasciati. Un altro pezzo della mia memoria che se ne va. Era quasi l’ultimo legame rimastomi a Roma con la mia infanzia e adolescenza nella Pampa argentina. So che molti puristi della “classica” storcono il naso solo a sentirne il nome. Musica da film, tanghi, che roba è? Chi è vissuto per anni fuori dell’Italia ignora questa separazione di generi così inflessibile, invalicabile, categorica e, diciamolo pure, rancorosa. Come se qualcuno invadesse un terreno proibito, circondato dal filo spinato dell’estasi a tutti i costi. Impulsi, sentimenti che ignora chi ha conosciuto ben altro contatto culturale che con quello della piccola e autoreferenziale provincia italiana. Soprattutto se il contatto è avvenuto con una cultura che è quella di Borges, Cortázar, Bioy Casares, Sábato, Piglia, Caparrós (“Echeverría”, romanzo bellissimo sul poeta che fonda la letteratura argentina). E, naturalmente, della milonga, del tango. Gardel, Atahualpa. L’Italia è il paese della cultura dei singoli. Spesso straordinari. Geniali. Universali. Ma singoli. Anzi, spesso, detestati, denigrati, perseguitati, dai connazionali. L’Argentina, invece, è il paese della cultura condivisa. Quando ci fu la grande crisi, i teatri si affollarono e si vendettero più libri. Borges scrive un breve saggio sul tango, non del tutto attendibile, ma bello. Luis suonava il pianoforte come pochi. Bisognava ascoltarlo suonare le sue variazione sul “choclo”. Il “choclo” è la pannocchia di granoturco. Ma anche il titolo di un vecchio tango, vivacissimo, divertentissimo: le allusioni sessuali si sprecano. Era il tipo di tango preferito da Borges, che non amava Piazzolla, che invece era un genio della commisiotne. Nel suo caso jazz e tango. Bacalov ha scritto un Misa Tango (Plácido Domingo, Ana María Martínez, Coro e Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Myung-Whun Chung, Deutsche Grammophon 463 471-2). Mi chiese a suo tempo di scriverne le note di presentazione sul cd. Esiste una Missa Luba, perché no una Misa Tango? Scrivo nelle note: “Luis Bacalov è argentino, ma vive a Roma. Che meraviglia se per lui la nostalgia di Buenos Aires assume il ritmo di un tango? Ma il tango non è solo il ritmo di una danza. E’ tutta una filosofia della vita. L’esperienza germinale del tango è lo sradicamento, lo spaesamento. Ciò che gli inglesi chiamano con bellissima parola sentirsi homeless, che non è tanto appunto la condizione di chi non ha casa, non ha patria, ma di chi dovunque vada si sente straniero, anche dove è nato, perché comunque sono fuggiti via gli anni in cui il luogo dove è nato era la sua patria. La nostalgia che allora stringe il cuore è una nostalgia delle origini, del ritorno alle origini. … Bacalov è di origini ebraiche. Lo sradicamento si fa dunque ancora più profondo. Le origini sono una terra promessa e perduta”. Camminavo, ormai più che sessantenne, dopo molti anni di fuga per il mondo e di ritorno in Italia, per una strada commerciale di Usuhaia e sentii a un tratto un canto acutissimo, quasi un grido nell’aria. Proveniva da un negozio di dischi. Era Atahualpa. Fui rituffato indietro di decenni. Alle strade assolate, ma gelide d’inverno, di Bahía Blanca, al ruscello guizzante tra le gole di Sierra de la Ventana. Quando correndo in bicicletta quei canti me li gorgogliavo tra me e me. Ecco, Luis era, per me, il ritorno di quei canti. Anche per me, un ritorno alle origini. Quando partii per Buenos Aires, dopo la mia lunga assenza, mi diede alcuni indirizzi. Poi ci fu il mio viaggio in Patagonia, fino alla Terra del Fuoco, appunto. Voleva che al mio ritorno gli raccontassi del viaggio. Ma, tornato, tardavo a contattarlo, sopraffatto dagl’impegni del ritorno, degli affari di casa. Ricevo una mattina un’email. Una sola parola, anzi una sola sillaba, una vocale: “¿y?” (“e?”). Me la sentirò ripetere quella domanda. Sempre. Come la domanda che chiede del ritorno. Stamattina alla radio parlavano di Ulisse. E del ritorno come modello fondante del racconto dell’Occidente. Ecco, Luis, che questo viaggio, come Ulisse, l’aveva compiuto dall’estremo oriente slavo all’estremo occidente americano per ritornare proprio in mezzo, nel Mediterraneo, conosceva tutti i ritorni. Tranne uno. Che adesso m’inchioda qui ad aspettarlo invano. Non fosse, a ricordarlo, a sentirlo ancora, quella domanda: “¿y?”.
Non si dovrebbe aggiungere niente a quella domanda. ¿Y? Invece sto ascoltando “La meravigliosa avventura di Carlos Gardel”, un cd pubblicato per Il Manifesto dalle Edizioni Musicali Life nel 2004. Ma si ascolti anche “Tango and around, Luis Bacalov Quartet” (EMI), 2001. Ciò che colpisce subito del suo modo di suonare il pianoforte è la duttilità del tocco, ma anche la sua incredibile soavità. Si potrebbe suonare Chopin, così. Inoltre, alla leggerezza del tocco si unisce una scorrevolezza, un’agilità invidiabili. Ma non tanto per la ricerca del suono bello, quanto per sondare le strutture melodiche e armoniche della pagina. Le voci acquistano ciascuna un suono diversificato, a rendere all’ascolto evidente l’intreccio del contrappunto. Ma poi, all’ingresso di accordi corposi, il gioco sembra prende l’andare del piano bar, e invece è uno scivolare dall’intimità della voce solistica del pianoforte al canto spiegato dell’orchestra, o piuttosto del gruppo strumentale, un quartetto, per esempio, in cui sotto sotto sembra di sentire la fascia avvolgente di un bandeneón. E non c’è solo la nostalgia di “Mi Buenos Aires Querido”, ma anche l’ironia, il divertimento della “Milonga sentimental” o del “Paseo de Julio”, la passione della “Cumparsita” (quanti sanno che il famosissimo tango non è nato a Buenos Aires, ma a Montevideo? Le due città formano, infatti, un unico campo di riferimento). Si analizzasse al filtro di un microscopio immaginario questo modo particolarissimo di suonare, si scoprirebbero molti punti di riferimento e molti sottotesti, molte stanze segrete. Lo stare sospeso, per esempio, tra il più collaudato romanticismo – o di ciò che si crede il romanticismo – di uno Chopin, e l’aperta esibizione cabarettistica. Ma il romanticismo non ha niente di estenuato né tanto meno di sdolcinato, e il cabaret non mostra un solo momento di volgarità. Chi sa, quando Debussy, ragazzo, suonava allo Chat Noir, forse suonava così. Qualche eco lo si sente nel suo “Minstrels” o nel suo “Rag-time”. Il tutto animato da un ritmo insieme preciso e mutevole, capriccioso, imprevedibile, che invece di vivacizzare il canto sembra estraniarlo, sospenderlo a uno spazio lontano, irraggiungibile. Oppure riemerge qui l’anima orientale, slava, russa o polacca, di ebreo e di polacco, quella tristezza o nostalgia che non ha cause scatenanti immediate, ma affonda in un più profondo sradicamento dalla terra, dalla vita. Certo è che, carezzate da questo tocco, percorse da questo ritmo, melodie e armonie si fanno racconto, confessione proprio di questo sradicamento. Il che non vuol dire distacco dalla vita, non amarla, bensì, tutto al contrario, amarla disperatamente, con frenesia, come se la si stesse ad ogni istante per perderla. Le donne, di questa vita, la presenza, o addirittura la sostanza, più segreta e sfuggente. E a questa presenza tutta la sua musica sembra un inno di ringraziamento. Non so se vado fuori le righe. Ma ascoltatela, questa musica, questo modo di suonarla. E sentirete che sì, vi rapisce, vi conquista, vi commuove, ma insieme vi sfugge, non si lascia afferrare. Anche qui, uno sradicamento. Come se la musica fosse uno specchio troppo limpido, troppo doloroso, della vita che fugge.
Fiano Romano, 17 novembre 2017
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