Musica
Richard Strauss a Salisburgo
Attualità del teatro di Richard Strauss potrebbe essere il titolo provvisorio o il sottotitolo di questa riflessione sul teatro. E sulla musica a teatro.
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Clitennestra arringa gli argivi
A Salisburgo c’era già un festival estivo, fin dal 1877, ma le rappresentazioni non si tenevano tutti gli anni. Il 22 agosto 1920 il Festival di Salisburgo fu rifondato con una rappresentazione di Jedermann (Ognuno), di Hugo von Hofmannsthal, geniale riscrittura di una sacra rappresentazione medievale, messo in scena da Max Reinhardt. Fu innalzato un palco davanti alla facciata del Duomo, E lì, ancora oggi, ogni anno, Jedermann viene riproposto al pubblico del festival. Insieme a Hofmannsthal, a fondare il festival ci furono Richard Strauss, il già citato grande regista Max Reinhardt, e lo scenografo Alfred Roller, che aveva collaborato a Vienna con Mahler, e infine il direttore d’orchestra Franz Shalk. L’opera che inaugurò la sezione musicale fu il Fidelio di Beethoven. La sezione teatrale fu inaugurata dal Servitore di due padroni di Goldoni messo in scena da Reinhardt. In Italia a riproporre la commedia goldoniana sarà Strehler al Piccolo di Milano, il 24 luglio 1947. Fin dall’inizio, dunque, il festival di Salisburgo, è impostato come un confronto tra tradizione e modernità. Hofmannsthal, Strauss, Reinhardt erano scrittori, compositori, registi moderni, che avevano rivoluzionato il teatro. La loro idea di teatro è che il teatro va reinventato ogni volta che si allestisce una rappresentazione e ogni volta adattato all’epoca del pubblico che assiste allo spettacolo. Ricordo un anno in cui tutte le strade di Salisburgo erano adornate da uno striscione, da palazzo a palazzo, da casa a casa, in cui si citava una frase di Hofmannsthal: “Il teatro di Sofocle, Shakespeare, Calderón, Mozart, Beethoven, Ibsen è sempre teatro, ed è sempre teatro contemporaneo” (cito e traduco dal tedesco a mente). In questo spirito a Salisburgo, da allora, si rappresentano appunto Sofocle, Shakespeare, Mozart, Beethoven, Verdi, Ibsen, Hofmannsthal, Strauss e le opere contemporanee. Ricordo un entusiasmante Julius Caesar shakespeariano messo in scena nel 1992 da Peter Stein. Modernissimo, sconvolgente. O il Saint-François di Messiaën messo in scena da Peter Sellars.
Nessuna meraviglia dunque se per il festival del centenario sia stata messa in scena una concitatissima Elektra straussiana che sembra rifare tutta la storia del festival. Il regista polacco Krzysztof Warlikowski fa precedere l’opera dalla lunga perorazione che nell’Agamennone di Eschilo Clitennestra rivolge agli argivi dopo avere ucciso il marito: “Non mi vergogno di fare adesso un discorso diverso da quello di prima”. Strauss quando compone l‘Elektra non mette in musica un libretto ma, come aveva già fatto per Salome, in cui è intonata la pièce di Oscar Wilde tradotta in tedesco, e come aveva fatto Debussy che aveva messo in musica il testo stesso del Pelléas et Mélisande di Maeterlinck, scrive la musica dell’opera Elektra sui versi dell’Elektra di Hofamannsthal che è a sua volta una rielaborazione di quella di Sofocle. Il cerchio si chiude, da Sofocle a Strauss, tramite Hofmannsthal. Warlikowski v’innesta, come una sorta di prologo in prosa, Eschilo, l’antefatto dell’azione che gli spettatori vedranno rappresentata sulla scena: l’assassinio di Agamennone. E Agamennone, con la fronte fracassata, è presenza inquieta, inquietante, per tutta la durata della rappresentazione, entra, esce, rientra, muto, che guarda nel vuoto. Eschilo è introdotto non a caso. L’Oresteia è infatti la rappresentazione di un processo che dalla vendetta individuale si evolve alla giustizia di un processo pubblico, dove giudice è la comunità. Quest’ultimo tassello nella rappresentazione salisburghese manca. Non è infatti Eschilo, la sua trilogia, a essere messa in scena, ma Sofocle, riscritto da Hofmannsthal e messo in musica da Strauss. La tragedia di Sofocle è tremenda – nel mondo di Sofocle, a differenza di quello di Eschilo, gli dei si disinteressano del destino degli uomini – e, se possibile, Hofmannsthal rende l’azione ancora più tremenda. C’è solo l’odio, la repulsione isterica, il rancore, l’ansia di vendetta. Perfino l’amore fraterno – tra Elettra e Crisotemide, tra Elettra e Oreste – è malato, incestuoso, diffidente. “Chi soffre ciò che io soffro, ha diritto di vendicarsi”, dice Elettra alla sorella nella tragedia di Sofocle. E in Hofmannsthal c’è solo questa rabbia repressa, quest’odio furibondo, il piacere perverso di fare soffrire chi ci ha fatto soffrire, di punirlo, di tormentarlo fino a togliergli la vita. L’apparizione silenziosa di Clitennestra, e poi la su arringa, all’inizio, trasmigrata dall’Agamennone di Eschilo, ci dice questo: mio marito mi ha ucciso una figlia, Ifigenia, per brama di potere, io ho diritto di vendicarmi, di ucciderlo per questo suo crimine. Giudicatemi come volete, voi di Argo, io ho compiuto un atto di giustizia. E per questa giustizia il potere, ora, è mio. A questo punto cominciano Sofocle, Hosfmannsthal, Strauss. E vediamo una figlia torturata dalla visione dell’assassinio del padre compiuto dalla madre, lei la detesta per questo. Vediamo inoltre una madre ossessionata non già dal rimorso di un delitto, ma dall’orrore che il crimine compiuto le lascia addosso, come una macchia indelebile di sangue, è perseguita dalla paura che il figlio scampato all’eccidio torni per vendicare il padre assassinato, e odia la figlia perché ha permesso che il possibile vendicatore, il figlio, scampasse al suo destino di morte.
C’è solo odio, rabbia, in questi personaggi. E la musica di Strauss ne evidenza la furia, l’esasperazione. Se c’è dolcezza è per la sofferenza subita. Per la vergogna di Elettra della propria figura deturpata dai soprusi davanti alla giovinezza del fratello vendicatore. La vendetta è preparata con cura, attuata con prudenza e precisione. Ma qualcosa esplode, si frantuma, Elettra crolla, ora che è stata vendicata dell’assassinio del padre non c’è più nessuna ragione di vita per lei. L’odio sfogato distrugge di più di quello represso in corpo. A dare corpo, appunto, e suono, a questa vicenda di distruzione morale, ma anche ottusamente fisica, c’è un cast strepitoso. A cominciare dalla Clitennestra di Tanja Ariane Baumgartner, splendida attrice, intensa cantante. Variabilissima Elettra Ausrine Stundyte, capace di multiformi voci espressive, dal grido al gemito, e attrice mirabile del proprio dolore. Giovane toro, mandato al macello di un crimine forse controvoglia, ragazzo inesperto della vita, giovanotto di borgata, l’Oreste stupendo di Christopher Maltman. Pavido cortigiano, potente per caso, mellifluo, ignavo, l’Egisto di Michael Laurenz. Straordinaria, inimitabile Crisotemide, così com’era stata insuperabile Salome, la lituana Asmik Grigorian. Il ritratto di famiglia, una famiglia di oggi, di sempre, è completo. E lo completano bene le serve, e tutti gli altri. Magnifico interprete, a capo dei Wiener, il direttore Franz Welser-Möst, che ritroviamo, due anni prima, nel 1918, appunto nella Salome, di Wilde e Strauss, come prima, nell’Elektra, Sofocle, Hofmannsthal e Strauss.
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Un dittico straussiano dunque, questo di Salsburgo proiettato dalla RAI su RAI 5. E per la modernità delle opere non si crede alle date: Salome, 1905, Elektra, 1909. La regia è di Romeo Castellucci. Premio della critica europea come migliore spettacolo dell’anno. In Italia non s’è n’è fatto cenno. Castelucci è oggi, forse, il pià geniale uomo di teatro che abbia l’Italia, ma il mondo lo celebra dovunque, l’Italia si ostina a ignorarlo. Nemo propheta in patria? Temo, peggio, il suo teatro disturba, non piace al conformismo del pubblico italiano, della critica italiana. Ritroviamo, qui nelle vesti della figlia di Erodiade Asmik Grigorian. Una prova di attrice, di cantante, davvero straordinaria, “Il segreto dell’amore è forse più profondo del segreto della morte”, dice Salome dopo avere baciato la bocca della testa mozzata di Giovanni Battista e averne sentito il sapore del sangue, un sapore amaro, sulle labbra. Come l’Elektra di Warlikowski, anche la Salome di Castellucci è inscenata sul palcoscenico della Felsenreitschule, e anche Castellucci la usa come scena, con pochi elementi aggiunti. Giovanni Precursore inciso sulla parete in fondo, solo le iniziali, in greco: Ιω Προ. Come fosse un’icona bozantina. Un buco nero, sotto. Da cui spunta come uno sciamano il Battista. In abiti di oggi gli ebrei, Erode, Erodiade, Salome. La tragedia ruota intorno alla sensualità inconsapevole della fanciulla e alla libidine esplicita di Erode. L’eccitazione di Salome si racchiude nelle sue gambe che danzano in aria, mentre lei è sdraiata.
Quella di Erode si scontra contro il corpo immobile e raggomitolato, durante la danza, inerte come un sasso, della stessa Salome. La testa mozzata è una testa di cavallo, stallone sfrenato. E Salome la colloca sul collo senza testa del corpo del Battista nudo, seduto su una sedia. Come nella musica di Strauss, l’orrore è nell’evidenza dei fatti, non nella retorica della musica e dei gesti. Salome canta con lo struggimento dolcissimo di una innamorata, bacia finalmente la bocca del profeta, ma è la bocca di una testa mozzata. Il resto, in questo splendido, intelligentissimo, ascetico spettacolo, viene da sé. Straordinarie controfigure del delirio di Salome sono sia l’Erode di John Dazsak e l’Erodiade di Anna Maria Chiuri. Impressionante, magnifico Jochanaan Gábor Bretz, inerme, commovente Narraboth Jiulian Prégardien. Incisivo, preciso, intensissimo, come sempre, Franz Welser-Möst alla testa dei magnifici Wiener. Visti e ascoltati, come si è detto, su RAI5 il 28 e 29 aprile. Si possono rivedere e riascoltare su RAI PLAY. Stupendo regalo, da non perdere. Da tenere presente, quando i teatri si riapriranno, che gli spettacolo si posso vedere e rivedere anche in televisione. Anni fa succedeva tutte le settimane, tutte le prime dei teatri, si d’opera che di prosa, erano registrate e trasmesse. Perché ora non più?
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