Musica
Quel benedetto folk irpino di Vinicio Capossela
Annunciato da mesi, esce oggi il nuovo disco di Vinicio Capossela “Canzoni della Cupa” (La Cùpa/Warner Music). A me non interessa recensire. Interessa semmai provare a collocare questa ennesima fatica di Capossela in un universo, quello della musica contemporanea. Perché le recensioni preferisco lasciarle a chi è titolato più di me per farle. A me, qui, interessa il dato culturale ed umano che emerge da tutto questo. Perché quella di Vinicio è un incursione a pieno titolo nel campo della musica folk. Dove per folk si intendono le canzoni della terra, quelle che raccontano dei ritmi ancestrali del seminare, arare e chinare. E raccogliere, dopo che si è lasciato ampiamente sedimentare. E qui la semina è durata addirittura 13 anni. Come quella che ha portato alla stesura definitiva del libro che ha preceduto di qualche mese questo nuovo disco.
Tredici anni di appunti e di spunti, affastellati con cura e pazienza, perché la terra chiede pazienza. E perché nel folk l’oralità la fa da padrona e le melodie si raccolgono dalle bocche della gente come quelle rose gentili che spuntano dove meno te lo aspetti. Che poi questo genere musicale in Italia è sempre stato un ‘dio minore’ rispetto all’onnipotenza dirompente di quello americano. Ma nel nuovo disco di Vinicio il folk nostrano celebra il suo riscatto ed arrivano a festeggiarlo artisti dei due mondi, quello che racconta la grande frontiera, incarnato da artisti come Flaco Jimenez, Calexico, Howe Gelb e Los Lobos, e quello rappresentato da voci e strumenti espressione della migliore musica popolare italiana, come Giovanna Marini, Enza Pagliara, Antonio Infantino, la Banda della Posta, Francesco Loccisano, Giovannangelo De Gennaro, senza dimenticare altri straordinari musicisti come Victor Herrero, e Los Mariachi Mezcal, Labis Xilouris, Albert Mihai e tanti altri ancora.
Come due sono i lati del disco. Il lato esposto al sole, il lato che dissecca, che asciuga al vento. Quello della Polvere. Un’opera enciclopedica. Canzoni della Cupa è nato in buona parte a Calitri, nel cuore più profondo dell’Irpinia. Una terra che dall’esteriorità riesce a plasmare l’interiorità di chi la vive. O anche di chi semplicemente la attraversa. Alcune canzoni sono state raccolte o composte lì. E lì è stato registrato uno dei due cd che compongono l’album, quello intitolato Ombra. Tutto il lavoro porta i segni di quel Sud continentale, di quell’atmosfera più lucano-pugliese che campana. Nel disco è forte la presenza di Matteo Salvatore e di altri autori tradizionali. Brani che Vinicio ha riadattato per farli suoi e per portarli in un linguaggio un po’ più vicino alla comprensione dell’italiano medio. E poi c’è il lato della Polvere, quello dei brani inediti che Capossela ha pensato in questi 13 anni, cercando di richiamarsi ad una tradizione folklorica inimitabile, ricca, evocativa. Unica!
A me è capitato di sentire solo alcune delle tracce proposte. Ne ho apprezzato la modernità. E la sfida che sta dietro tutta questa incredibile operazione di spolvero. Perché sta a noi scegliere tra l’essere condannati all’ascolto forzato di tante musiche tutte uguali, ma forse più orecchiabili, oppure prendere quella strada sconnessa che arriva alla sorgente della musica, a quella sua grande anima popolare che appartiene a tutti noi. E la seconda, è una strada in cui ci si potrebbe imbattere anche nelle ombre ed in qualche strumento musicale che suona demodé. Voi da che parte state? Come preferite educare la vostra intelligenza musicale? Come intendete crescere la vostra consapevolezza del mondo che ci circonda in mezzo a questo rumore qualunque? Qualcuno dice che solo l’Appennino può salvare la nostra identità di italiani. E Calitri è l’Appennino e mille Appennini tutti insieme. Parola di chi ci è stato. Vinicio ne ha preso parte della radice e l’ha messa in musica. Socrate avrebbe parlato di opera maieutica. Adesso Capossela si meriterebbe di cantarla proprio tutta la radice di quella terra con un vecchio Dylan. Detto questo, davvero, chapeau!
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