Musica
Quartetto Ébène: come si costruisce la musica
Bisognerebbe sempre seguire il primo impulso, assecondarlo, quando il mondo che t’invita riguarda la musica, la poesia, l’arte. Volevo andarli a sentire, i bravissimi musicisti del Quartetto Ébène, a Santa Cecilia, tappa di una lunga tournée in Europa, da Bruxelles a Yerevan, da Düsseldorf a Siena. Oltretutto offrivano al pubblico romano un programma bellissimo, tre declinazioni della sperimentazione musicale, nel Settecento, nell’Ottocento e nel Novecento, quasi a indicare una continuità, una sfida costante dei compositori della modernità al senso della musica nel mondo: lo Haydn rivoluzionario dei quartetti op. 20 (per i quali Brahms stravedeva), il terzo quartetto in sol minore, visionario, avveniristico, un laboratorio di come si costruisce una forma musicale; il Bartók più radicale del Terzo Quartetto, e per chiudere l’ultimo Quartetto di Schubert, un’avventura che i musicisti del suo tempo conosceranno solo nella seconda metà del secolo, per accorgersi che Schubert non solo li aveva preceduti, ma era addirittura andato oltre.
La frammentazione tematica, l’indagine sul suono prefigurano addirittura l’espressionismo novecentesco. Solo per ascoltare il loro Schubert, dopo avere ammirato il loro Beethoven e il loro Mozart, sarei dovuto andare al concerto, che è stato trasmesso in diretta da radio3. Ed è lì che l’ho ascoltato. Non è la stessa cosa scrivere su un concerto ascoltato in sala e sullo stesso concerto ascoltato alla radio. Ma il ricordo di altre interpretazioni, la conoscenza del loro modo di affrontare una partitura suppliranno, spero, alla mancanza dell’ascolto diretto. La stessa impaginazione del programma è una specie di loro firma. Suggerisce riflessioni musicali attraverso geniali e imprevedibili accostamenti, la percezione stessa del formarsi via via dell’idea musicale inviterà l’ascoltatore a collegare emozioni, congetture interpretative alle quali non aveva pensato. Uno pensa, infatti, che l’ordine logico dei pezzi sarebbe dovuto essere cronologico: prima Haydn, poi Schubert, e infine Bartók. E avrebbe certo potuto ispirare un discorso progressivo sulla dissoluzione della compattezza melodica di un tema dal classicismo viennese alle avanguardie del Novecento. Ma avere, invece, collocato Bartók in mezzo, subito dopo Haydn, ha messo in rilievo quanto già la scrittura di Haydn preparasse questa dissoluzione, e proprio nel momento in cui sembra al contrario proporne la fondazione, la nuova costruzione, quasi a dire che l’idea dialogica del quartetto propone fin dall’inizio un lavoro di analisi, di riconsiderazione degli elementi con cui si costruisce un discorso musicale. Violino primo e viola, da una parte, e violino secondo e violoncello, dall’altra propongono, simultaneamente, nelle prime due battute, due diversi disegni melodici, raddoppiandosi all’ottava. Una sorta d’invenzione bachiana a due voci (e Bach non è citato a caso). Ma è questo il tema, questo combinarsi delle due melodie. Non la melodia del primo violino e nemmeno quella del secondo violino, raddoppiate rispettivamente dalla viola e dal violoncello. Ma la loro combinazione. Non c’è una melodia prevalente e un accompagnamento che la sostenga. C’è un contrappunto tra due voci esposte dal primo e dal secondo violino, ma ciascuna di queste voci, a rafforzare lo spessore della materia sonora, è raddoppiata rispettivamente dalla viola e dal violoncello, il che rende più grave, morbido, il timbro delle due melodie; le quali, nelle battute seguenti sono assunte, diversificandosi, da tutt’e quattro le voci del quartetto: ecco dunque il dialogo a quattro, lo stile di conversazione musicale di cui, entusiasta, scriveva Goethe a proposito di Haydn. Bartók, un secolo e mezzo dopo, fa quasi la stessa cosa, lavora anche lui sulle melodie, ma le diversifica subito, ampliando o restringendo gli intervalli.
A questo punto l’attacco del Quartetto in sol maggiore di Schubert, che occupa per intero la seconda parte della serata, spiega, per così dire, il lavoro del compositore, di ogni compositore che operi all’interno della tradizione musicale tedesca. È, di fatti, la materia sonora stessa a costituire l’idea musicale da cui parte Schubert. A questa materia, quasi indistinta. quasi impercettibile, ma che si muove dinamicamente dal pianissimo al fortissimo, è imposta una pulsazione, un ritmo di giambo. Il resto nasce di conseguenza. Ora, è proprio l’incredibile mutevolezza della pasta sonora una della più evidenti qualità della Quartetto Ébène. Che dunque indaga come meglio non si potrebbe le metamorfosi tematiche ed espressive della musica, in particolare di compositori così complessi e multiformi come Haydn, Schubert e Bartók. Il lungo studio e il lungo amore di Beethoven, di cui hanno proposto in giro per il mondo e su cd tutta l’opera quartettistica, li ha certo predisposti a cogliere la progressiva formazione dell’invenzione musicale. Ma ogni nuova interpretazione è tuttavia una sorpresa, la rivelazione di aspetti nuovi anche delle partiture più famose e praticate. E così è stato. Quando mai si è sentito Haydn emergere da una pasta sonora così indistinta, quasi che il campo armonico, all’inizio fumoso, risultasse poi un’invenzione del compositore che lo estrae da questa pasta, lo regola, gli dà forma. L’indistinto assume quindi in Bartók l’insistenza di una ricerca verso l’ignoto, l’avventurarsi in una territorio sconosciuto e quando la musica si conclude ci si sente alle spalle i ruggiti dei leoni che popolavano il territorio e ci si trova ad avere conosciuto territori inesplorati, quelli appunto dove un tempo, sulle carte geografiche si scriveva: hic sunt leones, qui ci sono i leoni. E infine Schubert sembra gridare l’insolvenza, l’inermità della musica a salvare l’insalvabile, che sia la vita, sia la forma musicale, o entrambe le cose. L’intensità con cui i quattro musicisti del Quartetto Ébène (Pierre Colombet e Gabriel Le Magadure, violini; Marie Chilemme, viola; e Raphaël Merlin, tutti e quattro con strumenti preziosi – Stradivari i due violini e la viola e Guarneri del Gesù il violoncello -) dell’intensità espressiva hanno fatto la propria legge, la propria natura di musicisti. Naturale perciò che esploda, dopo ogni interpretazione, l’entusiasmo nel pubblico. Come è successo nella Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, per i concerti da camera dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Il Quartetto Ébène non suona: vive la musica, e la fa rivivere all’ascoltatore.
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