Musica

Profeti e regine: Pesaro incorona Rossini

10 Agosto 2021

A Pesaro è tempo di Rof, giunto alla 42esima edizione che quest’anno prevede un trio di titoli assai rappresentativi del genio pesarese: nell’ordine Moïse et Pharaon, Il signor Bruschino ed Elisabetta, regina d’Inghilterra. Quindi dal Rossini francese si procede a ritroso fino a quello napoletano, passando per una brillante farsa allestita al Teatro Rossini. Il resto è in scena alla solita Vitrifrigo Arena, che per due settimane si trasforma in una specie di Bayreuth del belcanto: una collina niente affatto verde in cui, più che del Sacro Graal, si è tutti in cerca di qualche coloratura, che a volte si riesce persino a trovare.

Ma andiamo con ordine, non cronologico ma di debutto, cominciando dall’apertura del festival, Moïse, che non va confuso con il Mosè in Egitto, azione tragico-sacra composta da Rossini nel 1818 per il San Carlo e ripensata quasi dieci anni dopo a Parigi come grand opéra (balletti compresi): prima esecuzione il 26 marzo 1827, lo stesso giorno della morte di Beethoven. La nuova produzione del festival è affidata a Pier Luigi Pizzi, che di Mosè nella sua carriera ne ha messi in scena parecchi. A partire dalla consueta traduzione italiana del Moïse, che per più di un secolo è stata la versione più diffusa dell’opera, intitolata semplicemente Mosè. Finché nel 1983 non venne riportato alla luce l’originale napoletano Mosè in Egitto, tappa fondamentale della Rossini renaissance diretto da Claudio Scimone: manco a dirlo, lo spettacolo era di Pizzi, trionfo del Rof delle origini. A quasi quarant’anni da allora, lo stile del regista si è sempre più asciugato, come in una ricerca inesauribile dell’essenziale: atmosfere rarefatte, tagli geometrici delle scene, annullamento o meglio sublimazione di ogni tentazione decorativa. Ma l’impostazione oratoriale dello spettacolo non è certo rinunciataria, anzi i rapporti tra i personaggi non sono mai convenzionali: il loro agire è immediato senza avere nulla di realistico, con una concisione amplificata dal riverbero di luci e controluce in cui tutti sono immersi fino allo speranzoso finale.

Più tradizionale la messinscena del Bruschino da parte del duo Barbe & Doucet, che hanno immaginato per questa farsa in fondo deboluccia un’ambientazione portuale tipo Tabarro, con tanto di molo, barca e scialuppa. In scena un realismo minuzioso d’altri tempi, con trovate garbate, gag spiritose, un uso intelligente degli spazi e una non eccessiva dose di “caccole”. Infine Elisabetta, inizio del regno di Rossini al San Carlo, senza dubbio la sua fase più sperimentale e musicalmente ardita. Scritta post Congresso di Vienna, l’opera rievoca, ovviamente romanzandola, la figura di Elisabetta alle prese più con intrighi e amori che con faccende politiche. Si è scritto un po’ ovunque che lo spettacolo di Davide Livermore avrebbe richiamato The Crown, che l’Elisabetta in scena sarebbe stata la veneratissima “Lilibet” e non la sua austera antenata. In effetti i costumi di Gianluca Falaschi convincerebbero chiunque: fin dall’aria di sortita Karine Deshayes sembra identica a Olivia Colman, almeno dalla platea. Ma il resto dello spettacolo segue altre strade e la regia, forse con un eccessivo horror vacui, si preoccupa più che altro di movimentare l’azione nei lunghissimi recitativi accompagnati, arie e duetti, sorprendendo continuamente il pubblico con effetti ben calcolati e ben realizzati, ma un po’ assillanti.

Questo per quanto riguarda gli allestimenti. Ma Rossini bisogna pure cantarlo. E qui si resta sorpresi nello scoprire che a volte i cast più blasonati possono essere più problematici di distribuzioni in apparenza (o anche di fatto) meno ricche. È andata così per Moïse et Pharaon, dove l’unico che non ha davvero deluso le aspettative è stato Roberto Tagliavini, autorevole protagonista, al contrario di Erwin Schrott, un po’ troppo fuori controllo sia vocalmente sia scenicamente. Eleonora Buratto conferma la sua intelligenza artistica e tutte le qualità del suo timbro, ma fatica nelle colorature dell’impervia aria del quarto atto, “Quelle affreuse destinée!”. Vasilisa Berzhanskaya è dotata di uno strumento davvero impressionante, ma ancora grezzo e discutibile quanto a gusto. Giacomo Sagripanti dirige per lo più correttamente l’orchestra della Rai e il coro del Teatro Ventidio Basso, preoccupandosi più della tenuta dell’insieme che della ricerca di una chiave interpretativa: e questo è un problema per una partitura così complessa. Al contrario in Elisabetta l’impressione è che la direzione assai curata e consapevole di Evelino Pidò abbia risolto le debolezze di cantanti non impeccabili ma musicalmente consapevoli, in particolare Karine Deshayes, Sergey Romanovsky e Salome Jicia. Più in difficoltà il tenore inglese Barry Banks. Quanto al Bruschino, il giovane Michele Spotti si conferma uno dei direttori più promettenti della sua generazione, capace di sottolineare con vivacità e invenzione i valori della partitura, a cominciare dalla “scandalosa” ouverture, in cui i violini secondi devono battere contro i leggii con l’archetto. Nel cast spiccano la Sofia di Marina Monzó e il Bruschino di Pietro Spagnoli.

Foto di Studio Amati Bacciardi

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