Musica

Postilla alla sopravvalutazione dell’esecutore

16 Settembre 2022

Ringrazio di cuore Massimo Crispi per le gentili e intelligenti note al mio scritto e, volentieri, rispondo.

Che l’interprete ci metta del suo è assolutamente inevitabile.

Lo stesso Strawinskij lo nota, citando (nella sua “Poetica della musica”, se non erro) il vecchio adagio che, nella nostra lingua, suona: “traduttore-traditore”.

Se poi ci spostiamo nell’ambito del jazz – e in generale di tutta la musica in cui l’improvvisazione gioca un ruolo determinante – l’interprete non è affatto solo “interprete” ma è, per forza di cose, molto di più e, a tutti gli effetti, ha un ruolo pari – o superiore – a quello di chi ha composto lo standard che lui sta eseguendo. John Coltrane, solo per fare un esempio banale, trasforma in un capolavoro “My favorite things” (che in sé era, in fondo, solo un simpatico valzer).

Il punctum dolens non è dunque quello della “interpretazione” (inevitabile) bensì della sua supervalutazione (evitabilissima e del tutto indebita): soprattutto in quegli ambiti nei quali il ruolo della composizione originale rimane di fatto (lo si voglia o no) prioritario. Questa sopravvalutazione è un sintomo ulteriore – e devastante – di quella spettacolarizzazione che ha ormai intriso ogni fibra della società in cui ci tocca vivere e che distorce, in profondità, qualsiasi forma di intelligenza del reale. E ciò che ho scritto era proprio questo: un invito alla concretezza (se un invito del genere vale ancora qualcosa).

La scelta che sollecito e preconizzo nel mio esperimento mentale (tra l’interpretazione di Gould e la creazione di Ferrè) non dovrebbe infatti, se ancora circolasse un po’ di senso del reale, avere nulla di paradossale. Perché se è vero che la musica “composta” (si può dire “una volta per tutte”?) necessita, come ho detto, di un interprete è altrettanto vero che quella interpretazione le rimane, in qualche modo, inessenziale. Perfino quando la giudichiamo magnifica. Se l’interpretazione di Gould delle Variazioni Goldberg sparisse di colpo dalla faccia della terra rimarrebbero decine di altre esecuzioni straordinarie a darne testimonianza e se anche tutte sparissero dalla faccia della terra vi sarebbe sempre spazio per una ulteriore “interpretazione” del testo originale. Che sarebbe sempre lì: roccioso e inespugnabile, alla faccia di tutti i Gould, le Landowska e i Jarrett dell’universo. Ma se cancellassi dalla faccia della terra una qualsiasi composizione essa sarebbe perduta per sempre e nessun Gould, nessun Radu Lupo, nessun Richter e nessun Gieseking sarebbe in grado di restituircela. In fondo, dunque, tutto ciò che chiedevo era una banalità: che non sia presa per tale, proprio questo, invece, non è affatto banale! La realtà di tutti i giorni infatti ci propone come personificazione di massa della “MUSICA” e della “ARTE” quasi solamente l’esecutore. Ritengo questa una distorsione significativa, proprio perché dà atto delle priorità dell’epoca e queste priorità la disegnano a perfezione.

Segnalarla dunque, per me, era importante.

Ho, per inciso, volutamente citato due esempi distanti anni luce (una canzone di Ferré e le Goldberg) perché se al posto di “Avec le temps” avessi nominato un preludio di Chopin oppure un madrigale di Gesualdo da Venosa la cosa avrebbe funzionato da anestetico (ah! La “CULTURA”!) e quel che ho scritto sarebbe stato meno indigesto di quanto volevo (lo sperimentatore deve pur ricorrere, talvolta, a qualche espediente semplificativo…). Infatti alla ipervalutazione dell’interprete si aggiunge oggi anche l’ipervalutazione (bouvardpecuchettista, se mi passa il termine) di tutto ciò che appare “CULTURALE” “ARTISTICO” “POETICO” ma anche “SCIENTIFICO”, “CREATIVO” ecc. E, come ha rilevato una volta per tutte Gombrowicz, il problema fondamentale della episteme occidentale dei nostri tempi è proprio questo: “più è intelligente, più è stupido”. Un saluto e ancora grazie per l’attenzione nei miei confronti.

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