Musica
Per sempre bambini: i Verdena
I Verdena, ovvero il gruppo più paranoico e assurdo del pianeta indie rock italia. Hanno appena pubblicato Endkadenz per l’Universal. Alberto, Luca e Barbara. Tre alluvionati. Che ci raccontano delle vallate bergamasche, di Burroughs, dell’autocritica e della musica come anatema contro il male. Foto: Alberto Gottardo
Intervistare i Verdena? Completamente inutile. Luca è muto, Alberto è pazzo e Roberta è presa male. Te lo dicono giornalisti, collaboratori di situcci e imbucati vari del mondo del dietro le quinte. L’ambiente del giornalismo musicale è come il pisciatoio di una discoteca, sono tutti lì a bivaccare fuori dalla porta del cesso fingendo di sapere tutto. In realtà sono tutte cazzate. Una cosa è vera, però: intervistare i Verdena non è semplice. Sono decine i video su Youtube in cui rispondono a monosillabi. Infatti… Perché mai intervistare i Verdena? Perché mai chiedergli del disco, di un disco che parla da solo? Dei Verdena volevamo sapere cosa fanno durante la giornata, che pizza mangiano, dove comprano l’incenso e «troiate» del genere.
I tre si manifestano come una di quelle compagnie di attori e saltimbanchi che nell’800 giravano i paesini dell’Europa sperduta o gli stati del sud negli USA, con l’aspetto sghembo dei giostrai zingari che percorrono mulattiere per fare i loro numeri di fronte alla gente. Appaiono, ridono, giocano, lanciano urletti, si fanno seri e poi scompaiono all’improvviso. Puf! Non sai mai cosa puoi aspettarti. Ti tireranno un tranello o ti sorrideranno? I due fratelli sono kafkiani, vivono nel paradosso. Rendono paradossale tutto quello che li circonda. Luca e Alberto hanno la spontaneità e il rapporto di due bambini, il che comprende gli eccessi di entusiasmo, come gli eccessi di tensione. Roberta osserva. A volte provata, sì, ma così integrata in questo trio che il solo pensiero di essere la bassista dei Verdena basta a farle superare ogni difficoltà. Comunque, come ci dirà Alberto: i Verdena sono tre fratelli. Come in una vera famiglia, basta un niente e la situazione si sbilancia da una parte o dall’altra. Senza mezze misure: solo bene bene o male male. Quindi quello che segue è il racconto – più o meno ordinato – di una giornata passata da WNR e Rockit con la band. Non ho chiesto loro se si drogano: mi ero scritto la domanda, ma mi sono reso conto che era una domanda del cazzo.
L’appuntamento con la band è fissato allo Spazio FASE di Alzano, poco fuori Bergamo, una ex cartiera Pigna. Un posto gigante, 30mila metri quadri di ex fabbrica ottocentesca riadibita a location per market ed eventi vari, un’area per bambini e uno spazio in cui bivacca una comune di artisti, diciotto circa, che stanno preparando una collettiva. Alberto Gottardo, il fotografo, ha a disposizione tre piani di edificio sterminato, ma chiaramente sceglie uno scantinato per iniziare, uno spazio che noi chiamiamo “la cripta”, contenuto da arcate oltre le quali non si può andare perché “ci sono dei buchi nel terreno”. Il silenzio della cripta è rotto solo da una ragazza che sta creando una palla di polistirolo gigante. La fa rotolare a mani nude, avvolgendola in pellicola trasparente e scotch, come se facesse una palla di neve formato XXL. Là fuori c’è un mondo, ma noi siamo lì sotto al buio in silenzio, con lei che rotola una palla di polisterolo. “È un limone” mi dirà dopo con lo sguardo languido e innocente e le tette scoperte. A tutti piacciono i limoni.
Il primo che arriva è Luca, con i capelli arruffati, un sorriso mezzo accennato, uno zainetto liso, dei pantaloni lisi, una giacchina lisa. Un ragazzo liso. Disponibile, amabile. Poi Roberta. Su Alberto ci sono voci discordanti. Cacciamo via il panico accendendo il registratore e cominciando a scattare foto. Parla Luca.
«Qui ci tengo tutti i numeri di telefono» dice maneggiando un’agendina sgualcita e armeggiando con un vecchissimo modello Nokia con l’altra mano
Ma… Quello è il tuo telefono?
«Sì. Ma i numeri li tengo in agenda perché non so segnarli nella rubrica» (ride). «È un anno e mezzo che ce l’ho, prima non ne ho mai avuto uno».
E ti è cambiata la vita?
«Naaa, perché fondamentalmente non me ne fotte un cazzo, non c’ho né internet, né il computer. L’ho avuto per un periodo ma guardavo solo troiate, tipo video di incidenti o suicidi. Ero entrato in un trip folle, lo guardavo per tre ore e mi scoppiava il cranio per le vibrazioni brutte. Poi però ho guardato tanto anche i concerti vecchi, i festival, la musica su YouTube. Ma alla fine son andato in nausea, era troppo tutto».
Ma una tua giornata tipo, quando non suoni, com’è?
«Adesso sono fidanzato e passo del tempo con lei. Poi boh… andiamo sul fiume, robe così. D’estate fiume, o pozze, qua fuori Bergamo abbiamo le pozze che sono belle… dormiamo in tenda e robe così. Poi adesso non ho nemmeno una casa, o meglio ce l’ho ma è un casino, non funziona l’acqua. Non so nemmeno io dove sono nello spazio e nel tempo in questo momento».
A questo punto arriva Alberto. Lo sguardo del tutto straniato. Magrissimo. Non parla. Ha un mal di testa lancinante, due occhi giganti che si spalancano e si nascondono. Attorno a lui c’è un campo magnetico di tensione palpabile, qualcosa che dice: non ti avvicinare. Dovrebbe infastidirci, invece è bellissimo. Lo guardiamo di spalle camminare, penzolante, magrissimo, minaccioso. Sembra uno vero della Hall of Fame del rock and roll. Questo tizio ha la faccia di uno che può dire la frase più spiazzante del mondo o star zitto tre giorni di seguito. Passa una mezz’ora in cui scattiamo foto e piano piano le cose si sistemano. Tra una pausa e l’altra succede la magia. Capiamo come mai i Verdena sono i Verdena. Nel silenzio di questo piano interrato, lo spazio è come una cassa armonica. Tutto fa eco. Siamo tutti sparpagliati da una parte all’altra a cercare di governare questa palla di tensione che Alberto ci ha lanciato addosso. Mentre la tipa arrotola il limone lenta e calma come una lumaca, noi teniamo una distanza di sicurezza di diversi metri l’uno dall’altro. Alberto è come un cane lupo che prende confidenza col territorio. Un lupo secco allampanato. Ti viene da avvicinarlo, ma è un desiderio che dura un secondo e basta.
Non so nemmeno io dove sono nello spazio e nel tempo in questo momento
In questo mood surreale, i due fratelli senza neanche parlare, di colpo trovano il proprio posto. Come? Con la musica. Luca si avvicina a una ringhiera, la studia, la tocca, poi tira fuori un accendino e comincia a batterlo sul metallo. E lo fa suonare. Suona un pezzo di ferro con l’accendino e le mani nude e tutti ci immobilizziamo. La ringhiera, quel ferraccio rugginoso che ti faresti dei problemi anche solo ad appoggiartici adesso è uno xilofono, la sta armonizzando. Il suono pare giungere da lontanissimo, il posto diventa un altro posto. Dall’altra parte del muro il lupo spalanca gli occhi nel buio. Sono due fanali accesi e illuminano un volto da fumetto, con quella mascella serrata, i capelli sparati pazzi a caso. Ha fiutato qualcosa. Così trova due travi di acciaio, le trascina al centro della cripta a fatica, saranno diversi chili l’una, e comincia a batterle al suolo. Il rintocco è quello di una campana tibetana o di un paese della vallle, una sorta di musica da rito medievale. È potente. Questi tizi fanno paura, sarebbero in grado di far suonare anche un buco del culo con le bacchette cinesi. I fratelli non si guardano nemmeno in faccia, sono separati da un muro ma stanno comunicando così. Ci sono i Verdena pazzi live nella cripta. È tutto così wooooah.
Da qui in poi sarà tutto stupendo. Finito lo shooting, Luca ci saluta sorridendo, avviandosi a piedi in montagna mentre noi raggiungiamo un bar. Al tavolo, di fronte a un toast, parliamo soprattutto con Alberto. È come se ci avessero lasciati entrare nel loro mondo. La registrazione ricomincia con Alberto che parla di calcio.
«Ehhh ma in quegli anni c’erano i Caniggia, gli Evair. Andavamo allo stadio con nostro padre, in curva a vedere l’Atalanta. Caniggia & co. erano dei campioni, facevano delle vere peripezie, sì lanciavano come dei pazzi sui palloni. Caniggia giocava coi pantaloncini tirati su fino all’inguine, sembrava in tanga, era pazzesco. Correva, correva, correva e paaaam! Quando abbiamo iniziato a suonare, sui 10 anni, abbiamo smesso di andare allo stadio».
Già suonavate a tredici anni?
«Si abbiamo iniziato nell’89, io e Luca. Mi han regalato la chitarra alla prima comunione, capisci… Lui aveva una batteria elettronica, quella vera è arrivata dopo. All’inizio non usava nemmeno il pedale, suonava in piedi come gli Stray Cats».
Roba raffinata per dei tredicenni…
«Sì sì, gli Stray Cats erano il nostro gruppo preferito assieme ai Beatles. Ed eravamo invasati del punk rock. Ci ha svezzati mio zio che ascoltava Miles Davis, Tom Waits e ci raccontava le storie dei personaggi del punk, tipo che ne so quello che si lancia giù da un palazzo, uno che vola sulla folla, quindi noi ci affezionavamo ai personaggi e poi apprezzavamo la musica. Siamo cresciuti così».
E il vostro pubblico era la famiglia?
«Si, suonavamo davanti alle zie. Ora che ci penso c’è anche un video che chissà dov’è finito. Avevamo ancora la vocina stridula da bambini» (fa la voce stridula da bambino e gracchia “Luuuuuca one ciù tri for”). «Luca da piccolissimo spaccava già il culo, ci avrà messo un mese a diventare bravo, si è visto subito che era un fenomeno. Io all’inizio non sapevo nemmeno accordare la chitarra, quindi ogni giorno il pezzo cambiava».
Com’è stata la vostra adolescenza?
«Beh, noi vivevamo in un paese di duecento persone, quindi era difficile trovare qualcosa da fare. In valle o suonavi o avevi il motorino truccato e andavi in giro a sfoggiarlo tutto il giorno. Stop. Ah poi ecco, si andava al bowling la sera o a cercare di imbroccare in una piccola discoteca. Sai una cosa assurda? Una cosa che è risaputa qui in valle? Non c’erano ragazze! Negli anni ‘80 devono essere nate poche femmine, eravamo tuuuutti maschi. Può confermartelo anche la Robi e le poche che c’erano venivano tartassate poverine. Quindi sì, ci si è sverginati tutti molto in là e per questo si suonava. Poi per raggiungere Bergamo ci volevano quaranta minuti in motorino e io che avevo il Ciao forse ci mettevo di più. Eravamo quasi preoccupati ad andarci, pareva la grande città». (ride)
Sembra una di quelle storie prese dalla vita di Cobain o degli Stooges e i Ramones. Non è un caso che la vostra musica nasca in un contesto del genere. Che ne dici Robi?
«Sai, a quell’età quando trovi una passione puoi avere tutte le attrazioni del mondo ma vuoi fare solo quello. Io avevo il mio gruppo e vivevo aspettando che arrivasse il giorno della settimana in cui si provava. Mi ricordo benissimo il primo giorno in cui entrai in una sala prove. Era piccola, anche brutta forse, ma ho subito pensato: voglio questo nella vita. Ne fui folgorata».
Vi è mai venuta l’idea di spostarvi, che ne so le solite cose tipo andiamo a Berlino sei mesi e vediamo che succede?
Roberta ride. «La casa discografica voleva mandarci a New York, due settimane tutto pagato compreso la sala prove e noi: naaa, troppo sbattimento. Penso sia un caso unico. Luca aveva controproposto Amsterdam, ma chiaramente non è stato nemmeno preso in considerazione dall’etichetta».
IL RESTO DELL’INTERVISTA, IN VERSIONE DINAMICA, SU ROCKIT. CLICCA QUI
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