Musica
Pensare con le orecchie: la quarantena e il pianoforte scordato
Un pianoforte scordato è come una persona triste, un infelice che può esprimersi solo in una cacofonia di suoni discordanti. Se i piani accordati si assomigliano tutti, ogni piano scordato è scordato a modo suo. E così a metà marzo, nel pieno della quarantena, ho deciso di provare ad aiutare questo infelice, che da sempre abita casa nostra.
Per prima cosa, ho rimosso le assi intarsiate che nascondono ai profani la complicata simmetria della tavola armonica. Ho ispirato l’odore di legno, feltro e polvere che emana dalla sua meccanica interna, cogliendo a colpo d’occhio l’inaspettata parentela che lega tra loro pianoforti e orologi: martelletti, molle, arresti e controarresti, corregge, leve e forcelle. Quindi ho cercato in casa un utensile idoneo al diametro dei piroli: una chiave a bussola, quasi perfetta. Quasi, perché ogni volta che la chiave perde la presa, e avviene spesso, sulle nocche della mano destra fioriscono, come stigmate, dolorose sbucciature.
Non sono un ingenuo, ho quarantatré anni, due figlie, un gatto. Non sono un ingenuo, ma non ho mai accordato un pianoforte. È vero, per anni le mie mani, con l’ausilio indispensabile delle orecchie, hanno girato e rigirato chiavi di chitarre, per tenderne le corde e raggiungere la giusta intonazione. Quante volte lo avrò fatto? E il piano, dopo tutto, è uno strumento a corde. Non sono un ingenuo, anche se mi entusiasmo facilmente di fronte alle imprese. Come in montagna, quando lo slancio iniziale non è condizione sufficiente a toccare il fondo del sentiero.
Sursum corda, dunque. Perché una chitarra di corde ne ha sei, mentre il nostro piano verticale ne ospita duecentoquattordici. Duecentoquattordici meno sei, duecentootto in più di una chitarra. Ognuno degli ottantacinque tasti, neri e bianchi, che lo compongono muove un meccanismo di leve e bilancini che va a percuotere simultaneamente dalle due alle tre corde (solo l’ottava più bassa si contenta di una sola corda per nota). Una tavolozza multiforme, dove le sfumature dell’afflizione diventano infinite.
Ascoltare, quando si accorda, è tutto. Ascoltare è un verbo attivo, significa cogliere e riconoscere frequenze, individuare l’unisono, la consonanza, i battimenti. Ma anche lo scarto, la nota stonata e falsa che inganna con frequenze calanti o crescenti. Abituare l’orecchio a queste nuance, ed educare la mano alla leggerezza dei movimenti rotatori, è una disciplina che imparo a coltivare, nel silenzio ovattato della città in quarantena.
E così, trafficando giorno dopo giorno intorno alle sue viscere eleganti e austere – con le comprensibili proteste delle mie compagne di clausura, tafanate dal martellare incessante di quei suoni terapeutici -, il nostro rapportarsi mi pare abbia subito una singolare inversione. Non ero più io ad aver qualcosa da insegnare al pianoforte smarrito. Era lui al contrario ad indicarmi la via, ad insegnarmi con pazienza il modo per elaborare la disarmonia di sentimenti che la quarantena mi metteva di fronte. O forse, più semplicemente, io mi occupavo di lui e lui ricambiava occupandosi di me.
Quando tre corde entrano in fase è gioia pura. Il tasto produce allora una nota sola, univoca: la sua nota. Con un esercizio di maieutica l’hai evocata ed ora è qui. Ma per cantar vittoria manca la prova del nove: il confronto con le altre note. L’ottava sopra, quella sotto, i bicordi, gli accordi, la quinta, la terza…e la gioia scolorisce in sconforto. Allora rimetti mano a ciò che pensavi assodato, smonti e rimonti le fondamenta sulle quali poggia l’intero edificio. Eppure, quella nota era autentica, come la felicità che ha generato. La stessa sequenza di suoni non cambia del resto sapore a seconda di dove principia? Tonalità maggiore, relativa minore. Fluttuano i confini tra sentimenti ed emozioni, contrastanti.
Vivo in Lombardia, terra desolata, dove dolo e dolore hanno lasciato ferite profonde. Conosco il senso di vertigine e caduta che oscura come eclissi il futuro: mio, delle mie figlie, di tutti noi. So che oscilliamo sospesi tra crisi economica, sfaldamenti sociali, sirene populiste, dissesto ecologico. E tutti quei morti, con i quali dovremo fare i conti. Non sono un ingenuo, l’ho già detto, ma se passo al setaccio queste lunghe settimane di quarantena mi trovo tra le dita anche momenti di indubbia felicità.
Come quando in montagna ti svegli e fuori piove. Una pioggia nera, invalicabile. E allora raccogli le energie, stemperi la delusione con un rinculo di carte e giochi da tavola. La ristrettezza dello spazio si fa rifugio e ti ritrovi felicemente imprigionato con le persone che ami. Solo che la pioggia non smette. Passano giorni, settimane, mesi, e la pioggia rimane sempre lì, fredda, nera, invalicabile. Eppure, anche in questa spaventosa condizione, riesci ancora a distinguere il riso cristallino di una bambina dal lugubre ticchettio che crepita insistente sul vetro della finestra.
Il giorno che ci siamo vestiti, abbiamo preparato giochi e borracce e siamo usciti di casa. Un gesto così banale. La nostra prima gita nello spazio interstiziale. Dentro i confini condominiali ma fuori dalle mura. Eccitazione elettrica nel scendere le scale. “Attenti ai gradini! Non correte!”. Il vicino del terzo piano tiene le scarpe sul ballatoio, il disinfettante a spruzzo a portata di mano. La rampa dei box sotto il giardino pensile, il cemento a vista, i neon. Ma l’incanto si alimenta di poco: l’edera sul muro rosso di mattoni, pattinare sul pavimento piastrellato, una partita di basket con un canestro improvvisato. Ho tirato fuori anche la bici e abbiamo immaginato di essere lungo il naviglio, tra animali conosciuti e fantastici. Io davanti, le bimbe dietro. “Papà, non pedalare, spingiamo noi!”.
Isidora che in balcone, col coltellino della sorella in mano, intaglia un ramo, di quelli che da sempre porta a casa da scuola. Ha appena compiuto sette anni – il primo compleanno lontano dal parco e dalle amiche, per colpa di coronavirus (lo chiama sempre così, senza declinazione d’articolo) – e ora ne pretende uno suo, di coltellino. Sul pavimento risplendono riccioli di legno, come tracce di un tarlo o di un picchio.
Amasha è tornato in Sri Lanka appena la scuola ha chiuso. Da laggiù continua a seguire le lezioni, a distanza come tutti, e partecipa alle videochiamate di classe (fuso orario permettendo). Il 25 aprile la maestra Chiara ha chiesto ai bimbi di comporre la scritta LIBERAZIONE, usando gli oggetti che ognuno aveva in casa: lego, cannucce, bottoni…La scritta di Amasha ha lasciato tutti a bocca aperta: dei fiori carnosi e colorati adagiati sulla rena. Quando Chiara ha chiesto ad ognuno di mostrare la stanza della casa che sentivano più loro, Amasha ha deciso che era arrivato il momento di rivelare il suo segreto. Ci ha accompagnati con impazienza per il giardino di sabbia e fiori, lo abbiamo seguito fuori dal cancello, e dopo pochi passi è arrivato ad una piccola duna. “Vieni, mamma!” ha esortato, mentre apriva un passaggio tra le fronde. Ed eccolo. Il mare. “Il mio mare” ha detto Amasha, mentre cinquanta occhi di bambini, e di altrettanti genitori, splendevano di stupore e invidia. A migliaia di chilometri di distanza.
“Posso leggere io?”. Nerea sa che la sera non è negoziabile. Prima di dormire solo la mia voce può risuonare per la stanza, loro in ascolto dal letto a castello, Barbara seduta a terra vicino a Isidora. Ma il pomeriggio anche alla grande, undici anni a fine ottobre, è concesso il privilegio di leggere alla famiglia. C’è un libro che ci accompagna da giorni. Parla di un castello stregato che sputa fumo da quattro torri e, grazie al potere di un demone, si muove per lande e per monti. Un racconto gustoso pieno di colpi di scena, ironia e, naturalmente, magia. Quella che permette al giovane e volubile negromante, protagonista del romanzo, di uscire dal castello in luoghi distanti centinaia di miglia l’uno dall’altro. La destinazione dipende dal colore del quadrante affianco alla maniglia. Poter andare al mare, in collina, in altre città, semplicemente girando il pomello. Pensa averla noi una porta così, ora che non possiamo muoverci per colpa del virus! Abbiamo voglia di prati e boschi, ruotiamo il quadrante sul verde. E se andassimo in spiaggia? Color arancione. Sarebbe bello, ridiamo. Mi fermo a guardare una goccia di saliva, sferica e minuscola, che scintilla improvvisa sulla pagina bianca.
“Tutti a casa stanotte a fissare/ l’angolo rimasto blu per poco ancora/ a pensare cos’era da tenere, cos’era da buttare/ o da lasciare andare in malora, ma non tremare ancora/ non sarà niente di diverso da quello che è successo ieri”. Angela canta con la sua voce ruvida e dolce un quotidiano perturbante, simile a quello che stiamo vivendo ora. C’è tanto Lucio, tanto amore per lui, che aleggia tra queste parole e questi suoni. Guardo il cielo che si scolora all’orizzonte, la luce lascia spazio al buio. È allora che scorgo il volo sincopato. Due pipistrelli si rincorrono nello specchio del cortile. Penso a Lucio, in una metempsicosi da pipistrello, e sorrido. Poi penso a quanto si è parlato di voi in questi giorni, amici chirotteri. Non ve ne curate, continuate a rincorrervi ciechi nello specchio del cortile.
Sto mettendo il grasso a degli stivali di pelle, per quest’anno non verranno più usati. Quando dalla cucina risuona la domanda: “Ragazzi, dove vorreste andare appena finisce la quarantena?”. Allungo le orecchie per sentire le risposte. C’è chi vuole tornare a mangiare il sushi, chi correre a trovare amici e parenti, lontani o vicini, in ogni caso distanti ormai da mesi. “E tu, Nerea, cosa vorresti fare?”. Ci pensa su, poi risponde. “Vorrei andare in una baita, in montagna”. “Che bello! Insieme a mamma e papà?”. “Veramente, vorrei andarci da sola”. Come, da sola? penso indispettito. Poi realizzo la chiara sanità di questo desiderio: finalmente sola.
La quarantena ci ha schiacciati tutti ad una medesima condizione, è vero, ma non è una livella. Non ha uniformato le esperienze, semmai le ha fatte esplodere. Essere bambino essere adulto, essere giovane essere anziano, essere solo essere insieme, essere uomo essere donna, essere in salute o non esserlo. Se non vogliamo tradire questa moltitudine, e mantenere un minimo di onestà intellettuale, abbiamo il dovere di iniziare soggettivamente ogni discorso su questo anno di confinamento, partendo dal proprio vissuto.
“Senza dubbio da un decennio, e senza davvero rendercene conto, noi produciamo la storia del mondo nel modo più smaccato. E tuttavia in verità non abbiamo vissuto nulla, non siamo cambiati per nulla, abbiamo visto molto e non ci siamo accorti di niente”. Scriveva così Robert Musil in un discorso di una lucidità incredibile, scritto a pochi anni dalla fine della Grande Guerra. “C’è soltanto una risposta, credo: noi non possedevamo i concetti per interiorizzare il vissuto. Ci sono mancati i concetti per far entrare in noi ciò che abbiamo vissuto. O, anche, ci sono mancati i sentimenti che, con il loro magnetismo, mobilitassero i concetti necessari. E ci è rimasta soltanto un’inquietudine piena di stupore”.
Noi non abbiamo vissuto l’esperienza indicibile di una guerra. Eppure mi sembra che anche noi, come dice Musil, siamo figli di quella stessa inquietudine, sprovvisti come siamo delle forme e dei sentimenti necessari a comprendere ciò che stiamo vivendo. E allora mi chiedo, cosa dobbiamo farne di questa felicità impastata di dolore e paura? Dobbiamo vergognarcene, dobbiamo ripudiarla? O al contrario curarcene e preservarla per i giorni a venire?
Non ho una risposta da offrire. Per ora mi basta pensare che questo tempo non è stato vano. Il nostro pianoforte non è più scordato come prima, questo è certo, anche se non posso dire che ora sia guarito. Ma forse anche i pianoforte accordati in realtà non si somigliano, e se sono felici lo sono ognuno a modo suo.
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