Musica
Ornella Bianconi e le nuove canzoni della Mala
Il tema del giorno sono i Baustelle. A quelli che sono infastiditi dal fatto che esista un argomento attorno a cui si polarizzano le discussioni sui social consiglio la lettura di questo. Avranno qualcosa di più complesso per cui farsi saltare la mosca al naso. Agli altri, più aperti al dialogo con lo sciame dei social, consiglierei di soffermarsi per un paio di minuti sulla differenza tra cantare di Ornella Vanoni e essere Ornella Vanoni. Francesco Bianconi è Ornella Vanoni che canta le canzoni della Mala. Non appartiene al consunto immaginario pop-passatista con cui definisce la tag cloud dei suoi testi, ma sa che evocandolo innesca un trappolone che gli consente di provare il disagio di epoche non vissute, e lo usa come materiale per neutralizzare le poetiche che si generano a contatto con il disagio attuale. Non credo sia il caso di chiamare in causa Simon Reynolds e Retromania. Tutto in questo caso è più semplice. Una volta si accusavano i gruppi progressive di scrivere testi escapisti. I Baustelle usano la voce di wikipedia su Vallanzaska al posto di Tolkien, il modello letterario forse è più fragile e certamente più ambiguo. Il risultato però alla fine è lo stesso. I Baustelle trascinano da un’altra parte, una carnevalata strapaesana dove il nostro tempo non esiste, è disinnescato il personale e il politico è ridotto a una Teca Rai.
Anche se da buon bovarista gravita sul mondo chiuso del Quartiere Isola, Bianconi va forte in tutti i locali cittadini frequentati da quel tipo di avventore che, dal Giamaica al Bar Basso, se ti siedi un attimo ti infila in mano l’iPhone e ti fa ascoltare “Mambo” di Dalla o “A Mano a Mano di Rino Gaetano”. La grande transizione romantica senza ritorno dal corteo al pop. Prima e dopo quel fotogramma non sembra essere esistito nulla. Meglio stare a casa la sera e farsi uno shampoo solitario? Non ho voglia di spingermi oltre nell’analisi, ma mi è chiaro sin dal primo ascolto che “L’amore e la violenza” è un prodotto costruito a tavolino per un target che a occupazioni professionali creative ben remunerate e una disponibilità di diversi drink a serata associa un profilo di consumi culturali deprimente, e la cui curiosità intellettuale si ferma al torbido rassicurante di un album Panini dove i doppioni sono immancabilmente Bianciardi Manzoni Boetti De Pedis Sergio Segio Barbara Bouchet e Luciano Lutring. A questo giro è Amanda Lear. Al prossimo sarà Jenny Tamburi o Mino Pecorelli: è il grande fascino delle figurine, i baffoni di Palanca Frappampina Epaminonda e Maurizio Merli. Ma davvero siete disposti a vedervi un’ora di Catanzaro-Atalanta del ’76? E a scambiarlo scientemente per la lettura di un saggio di Toni Negri, come se fossero la stessa cosa? Può darsi benissimo che dentro a ogni autore rock di successo ci sia un sociologo craxiano da strapazzo (e l’evoluzione più recente di alcune carriere lo confermerebbe), ma la cosa più allarmante è che un mediano del lavoro culturale, la cui massima aspirazione vent’anni fa sarebbe stata un posto in una casa editrice qualsiasi e al limite dopo i quaranta una cattedra allo Iulm per puntellare i guadagni oggi giochi disinvoltamente a compendiare la tradizione della canzone italiana, facendoci credere di aver trovato il punto di sintesi tra cantautorato e pop nel paesaggio anemico delle sue canzoncine alla Irene Grandi (meglio il lato B del lato A, comunque). Hai voglia a tirare in mezzo i poveri Pulp. Bianconi ci restituisce l’immagine di un Paese piccino così, come neppure il povero Tommaso Labranca aveva immaginato, che pare far capolino dall’appendice della guida alle discoteche italiane di Gianni De Michelis. Sembra Milano e invece è Montepulciano. E meno male, perché se i Baustelle fossero davvero una produzione milanese Doc ci sarebbe da preoccuparsi seriamente.
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