Musica
Non spicca il volo ‘La gazza ladra’ della Scala
Giovane e innocente, Ninetta non ha vita facile nei due lunghi atti che le dedica Rossini: la gazza del titolo, ladra e dispettosa, svolazza discretamente sul palco dando occasione a chi vuol male alla servetta di metterla nei guai. Accusa e condanna capitale per futilissimi motivi: il furto di due posate. Ma il caso, che scombina, è anche capace di salvataggi dell’ultimo momento, chiudendo lietamente questo titolo che da serio si fa semiserio, curioso ibrido di commedia e tragedia sospese a mezz’aria tra le brillanti meccaniche rossiniane.
Meno lietamente si è chiusa invece l’inaugurazione dell’opera alla Scala, a due secoli dalla prima e oltre uno e mezzo dall’ultima ripresa: in molti, compreso il direttore Riccardo Chailly, sono stati maltrattati da un loggione che rumoreggiava già alla fine della Sinfonia. Seconda turbolenza di fila dopo il fiasco – in effetti ben più macroscopico – dell’Anna Bolena ancora in scena. Evidentemente il belcanto a Milano fatica a passare, ma questa è solo cronaca di teatro, con le sue logiche e politiche poco interessanti, di certo insignificanti per un giudizio critico.
Serve una premessa. Nel suo percorso pucciniano, Chailly sta portando avanti un’operazione culturale importante, più volte dichiarata, di riabilitazione per così dire “novecentesca” delle partiture di Turandot, Fanciulla e Butterfly – queste finora, ma arriveranno tutte –, svecchiate dal sentimentalismo melò di tradizione in ottica quasi stravinskiana: insomma più che un suono sensuale, per Chailly conta un suono organizzato. E per quanti dubbi e perplessità si possano sollevare, è certo che si tratti di un’operazione di prim’ordine, che l’orchestra segue attentamente secondo le intenzioni del direttore.
Ma rispetto alla scelta della Gazza rossiniana, si fa più fatica a rintracciare il progetto, se si esclude la missione di recupero di un’altra opera nata per la Scala e poi dalla Scala ignorata, dopo Giovanna d’Arco o La cena delle beffe, che è una ragione un po’ debole.
Senz’altro si tratta di un’opera che – a differenza delle altre due – non è difficile definire sublime, anche se poco nota al di là della Sinfonia di kubrikiana memoria – indimenticabile la scena di violenza in teatro in Arancia meccanica, straniata dall’Allegro. La sua costruzione e sviluppo, che alterna idillio malinconico e pastorellerie a solenni marce funebri, recitativi accompagnati preverdiani, teatralissime letture di lettere e condanne, oltre che attoniti numeri di stupore, persino a cappella, non può non sorprendere per quella capacità di Rossini di ordinare un materiale non ordinabile. E invece tout se tient, con la grazia distaccata di una musica che sa volare lontano dall’azione senza cinismi né indifferenze, una musica che partecipa alla suspense giudiziaria della vicenda tenendosi sempre un passo indietro, nell’irrazionale razionalità dei suoi meccanismi.
Ma forse nella direzione di Chailly questa grazia è mancata, a partire dalla violenza dei timpani fin dalla marcia iniziale, mentre viceversa nei passaggi più leggeri i suoni sembravano svuotarsi, frammentando di conseguenza la continuità dell’opera. Sempre, va detto, con impeccabile precisione metronomica, senz’altro condizione necessaria per Rossini, ma non sufficiente per catturarne l’anima teatrale. Perché c’è una morbidezza impertinente della partitura, uno sguardo quasi brechtiano richiesto nei momenti più cupi, spesso attraversati da ironici svolazzi in maggiore, che sono inspiegabili logicamente a meno di non richiedere una tinta di imprudente sconsideratezza alla macchina orchestrale.
Quanto alle voci, di gran livello la compagnia dei giovani, rossiniani da sentire e risentire. Rosa Feola porta in scena una Ninetta tutt’altro che sdolcinata, lontana dai cliché, sicura e aggressiva dalla cavatina «Di piacer mi balza il cor», fino alle frasi esclamate a un passo dalla tragedia, sempre in un equilibrio senza disperazione. Suo padre Fernando, soldato fuggiasco dai trascorsi oscuri, è Alex Esposito, che riesce da solo a portare nel suo declamato il peso politico dell’opera, altrimenti trascurato in questa produzione: nel suo «Coraggio, mio core; vo’ tutto rischiar» sembra insinuarsi un affanno di barricate contro la restaurazione. E ancora Teresa Iervolino, interprete straordinaria di mamma Lucia che non trascura le contraddizioni del personaggio, dalla gelosia per il figlio edipizzato al senso di colpa per la povera Ninetta. Michele Pertusi, meno giovane ma altrettanto energico, ha tutta la buffa birichinaggine che serve al podestà, vero Scarpia rossiniano. Meno convincenti le interpretazioni di Edgardo Rocha, Serena Malfi e Paolo Bordogna.
Debutto alla Scala per Gabriele Salvatores, con le scene di Gian Maurizio Fercioni e le marionette dei Colla che raddoppiano i personaggi: per dirla con Bertolazzi, proprio «el nost Milan». La gazza dispettosa volteggia non vista con acrobazie aeree da Cirque du Soleil – è la brava Francesca Alberti – e muove il meccanismo delle scene: così lo spettacolo procede garbatamente e con gusto – se si esclude la comparsata del Conte Dracula -, ma senza quel taglio registico capace di fargli prendere il volo.
Foto di Brescia / Amisano.
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