Musica
Musica leggerissima #9 – Branduardi
“Musica leggerissima”, ovvero come parlare ogni volta di un disco poco discusso o dimenticato. Come parlare ogni volta di un bel disco italiano.
C’è poco da fare, Branduardi (1981) al suo autore non piaceva per niente. La certezza la abbiamo perché il Nostro lo ammise chiaramente in alcune interviste. Non gli piaceva perché lo riteneva un disco con alcuni problemi stilistici (diceva che al suo interno c’erano generi lontani da lui e che alcune modalità espressive gli appartenevano poco). Diceva pure che il disco aveva avuto una gestazione complessa, che ne aveva quindi compromesso la purezza. Il fatto è che invece Branduardi è un album estremamente solido e affascinante, ma d’altronde si sa, gli autori non amano mai le loro opere migliori. Ad avvalorare la mia tesi, basta tenere di conto che in questo lavoro torna agli arrangiamenti un maestro come Paul Buckmaster e i suoni, rispetto ai dischi precedenti, si ispessiscono, cercano colori variegati e, a tratti – in alcune delle sue atmosfere quasi nebbiose – si materializza una sorta di primitivismo che contrasta magicamente con una ricerca musicale nuova che sfocia anche nell’utilizzo dell’elettronica.
C’è una grande attenzione nei confronti dei ritmi e della natura più percussiva delle sonorità esposte. Come diceva nel periodo di uscita del disco lo stesso Branduardi: “Ho ascoltato molta musica particolare, soprattutto esempi di poliritmia africana, mentre prima mi ero sempre preoccupato più della tradizione europea preferendo in questo senso un discorso armonico e melodico. È importante questo recupero di esperienze dimenticate e che esprimono la fisicità della musica, il suo lato sanguigno”. Uno dei brani più interessanti in questo senso è “Barche di carta”, che procede deambulando, avanti e indietro, insicuro, estremamente espressionista, comunica ritmicamente il mare, lo spazio, la vita che procede un po’ incerta un po’ inconsapevolmente infantile. È anche molto interessante l’uso dei synth, i cui suoni ironizzano sul procedere del viaggio, ma si mostrano anche estremamente colorati e creativamente eterogenei. La modernità incontra la tradizione e la natura arcaica della musica.
Prosegue Branduardi: “La musica è anche ipnotismo. In generale la musica africana è proprio la negazione della fisicità, della materialità; è la realizzazione di un ritmo ondeggiante, che toglie il terreno da sotto i piedi”. Un pezzo come “La collina del sonno” mette perfettamente in musica le parole del maestro: una ninna nanna suadente, che mostra la sua natura più ipnagogica attraverso l’intrecciarsi dei ritmi e delle atmosfere sognanti (di nuovo evocate grazie all’uso dei sintetizzatori). Ma il pezzo più grande del disco è anche quello che lo conclude: “Vola”. È un brano complesso, con venti violini della London Symphony Orchestra, con la loro parte scritta da Branduardi insieme a Godfrey Salmon. Un brano che procede spedito tra cambi di accento, tra battere e levare, con un flusso che trascina in una danza viva che porta lontano dove si può pensare di non dover tornare. Branduardi insomma non sarà un capolavoro, ma è di certo un grande disco. Nonostante ciò che ne dica il Maestro.
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