Musica
Musica leggerissima #4 – La fabbrica di plastica
“Musica leggerissima”, ovvero come parlare ogni volta di un disco poco discusso o dimenticato. Come parlare ogni volta di un bel disco italiano.
Gianluca Grignani è rimasto sempre fuori da ogni specifica definizione che potesse perfettamente inquadrarlo, appariva sempre vicino a ciò che sembrava un tempo il mainstream, ma poi, con le sue parole e la sua musica, finiva per percorrere appunto strade inclinate, percorsi obliqui, vite ai limiti della coerenza con ciò che le portava ad essere quello che erano. La fabbrica di plastica (1996) è un disco che annunciava proprio questa potenza contraddittoria, questo modo di fare sempre a modo proprio, anche se con mezzi termini. “Io vengo dalla fabbrica di plastica / Dove mi hanno ben confezionato / Ma non sono esattamente uscito / Un prodotto ben plastificato”: come recita nella title track, Grignani è consapevole di essersi omologato, ma solo in partenza e fino a un certo punto. Uno dunque che credeva nei compromessi, ma fino a quando gli venivano calati dall’alto, come qualcosa di necessario per sopravvivere e comunque sia sempre dentro gli spazi che amava. Poi, successivamente, rifiutò anche quei compromessi, ma questa – lo sappiamo bene – è un’altra storia.
Alla fine, negli anni Novanta la sua musica lo descriveva forse meglio delle sue parole: sfuriate hard rock, crossover d’annata, lucide corse clamorosamente psichedeliche e shoegaze repentino. Registrato tra Milano, Garlasco e Londra, arrangiato da un top player come Greg Walsh, LFDP è uno degli album più chitarristici dell’intera storia del rock italiano. Si sente immediatamente nella già citata traccia che dà il nome all’album e in tantissimi altri brani. Nel finale di “Solo cielo”, ad esempio, le chitarre si liquefanno, diventano per qualche secondo quasi poltiglia di metallo cosmico. In “Testa sulla luna” le briciole di quelle stesse chitarre acquisiscono nuovamente volume e lanciano su un altro pianeta il cantautore milanese. In “Fanny”, invece, c’è un assolo assurdo, stracciato, lasciato cadere a terra, calpestato, molleggiante, con un suono ipertrofico, leggermente fuori dall’estetica consentita dal genere nel quale si incasella. Ne “La vetrina del negozio di giocattoli” il solo parte su un treno senza freni, lanciato nello spazio, con altre chitarre che lo fluidificano: lo fanno passare attraverso ogni anfratto e poi lo rallentano e lo spalmano in una sorta di Om universale e riappacificante.
LFDP è dunque queste chitarre, o ancora meglio, è la chitarra di Gianluca Grignani, che in quegli anni era praticamente il suo alter ego, il suo centro di gravità permanente. Era come quella fabbrica di cui parlava, un oggetto chiaramente identificato che – come cantava: “Ha una valvola di sfogo nel costato / Ed è lì che sono nato / È da lì che son passato”.
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