Musica
Musica e poesia
Riflessioni provvisorie sulla pratica del madrigale italiano rinascimentale e corollario sul rapporto tra poesia e musica e sulla musica di oggi
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Colgo l’occasione di uno scambio di vedute, sulla mia bacheca di Facebook, sull’interpretazione di un madrigale di Cipriano de Rore, per allargare e approfondire la discussione sul rapporto tra un testo e la sua intonazione musicale. La prendo da lontano. Con due esempi che escono dal contesto rinascimentale. Una delle più belle e famose poesie di Goethe è il Wanderers Nachtlied, canto notturno del viandante (en passant, il famoso canto leopardiano, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, è anch’esso in qualche modo ispirato da questa sublime piccola poesia goethiana. Ecco la poesia di Goethe:
Über allen Gipfeln
Ist Ruh;
In allen Wipfeln
Spürest du
Kaum einen Hauch;
Die Vögelein schweigen im Walde.
Warte nur, balde
Ruhest du auch1.
Alcuni compositori si sono lasciati tentare dal metterla in musica. Tra questi, Schubert, Liszt. La poesia affida l’efficacia del suo messaggio anche a un uso sapiente delle rime. Ruh, pace, fa rima con du, tu. Hauch, respiro, fa rima con auch, anche. Le altre rime alludono all’altezza, all’inaccessibilità del luogo: Gipfeln, vette, Wipfeln, cime degl alberi. Il basco è evocato al terzo verso che segue, Walde, e fa rima con balde, presto. Il bosco è il luogo della distanza, del silenzio, dove “presto” riposerà anche il poeta. E qui si coglie l’abisso della rima Walde-balde: il bosco è il luogo dei morti dove presto andrà anche il poeta. Sia Schubert sia Liszt colgono lo spartiacque della poesia: Hauch, respiro, il Lied ha in quel punto una sosta. Ma mentre Schubert introduce fin dall’inizio il senso della morte, scandendo il ritmo della marcia funebre, dattilo più spondeo, già nell’introduzione pianistica, Liszt vuole invece introdurci nel senso di calma offerto dal silenzio del bosco. Abbiamo un seguito di accordi di minima che scandiscono un ritmo lento, regolare. Dopo che la voce intona la parola Hauch, respiro, il Lied si anima, il silenzio del bosco sembra terrificante, e solo quando il poeta si incita all’attesa del riposo, balde ruhest du auch, presto riposerai anche tu, che la voce ripete più volte, dapprima in maniera concitata e via via sempre più calma, si torna alla quiete iniziale degli accordi di minima. Ora, se il cantante non fa percepire distintamente quel Ruh, pace, che fa rima con du, tu, quella sosta su Hauch, respiro, che fa rima con l’ultima parola della poesia, auch, anche, come potrà l’ascoltatore capire l’interpretazione diversa dei due compositori? Il senso di morte, anzi quasi il desiderio della morte, in Schubert; la paura della morte in Liszt. Come percepirà il senso dell’ansito lisztiano, della sua frenesia, se non sente distintamente che la frase balde ruhest du auch, presto riposerai anche tu, si ripete più volte? E veniamo al secondo esempio, mozartiano. E’ l’aria di Elettra, nel terzo atto dell’Idomeneo, in cui ella sfoga tutto il suo furore di amante respinta. L’aria è preceduta da un lungo, drammatico recitativo. Ecco il testo:
Oh smania! oh furie! oh disperata Elettra! …
Addio amor, addio speme!
Ah, il cor nel seno già m’ardono
l’Eumenidi spietate
Misera a che m’arresto?
Sarò in queste contrade
della gioia e trionfi
spettatrice dolente?
Vedrò Idamante alla rivale in braccio?
e dell’uno e dell’altra
mostrarmi a dito? … Ah no, il germano Oreste
ne’ cupi abissi io vuò
seguir. Ombra infelice!
lo spirto mio accogli, or or compagna
m’avrai là dell’inferno,
a sempiterni guai, al pianto eterno.
D’Oreste, d’Aiace
ho in seno i tormenti,
d’Aletto la face
già morte mi dà.
Squarciatemi il core,
ceraste, serpenti,
o un ferro il dolore
in me finirà.
Mozart già immette la tempesta nell’orchestra. Ma sia il recitativo accompagnato che l’aria sono una riassunzione totalmente stravolta, reinventata, sinfonicizzata – e qui Gluck avrò avuto il suo peso – del modello d’aria d’ira. Certo, la musica è già teatro, l’orchestra fa già capire l’esplosione di rabbia di una donna disperata (chi sa che perfino Verdi non abbia tenuto presente quest’aria per certe sue furiose cabalette). Ma la comprensione del testo non è indifferente alla comprensione della situazione drammatica e del carattere del personaggio. Certo, bisogna anche conoscere che Elettra è sorella di Oreste e che Oreste dopo il matricidio impazzisce. Ma ci sono dei punti in cui Elettra dice cose importanti, manda messaggi chiari allo spettatore. “Vedrò Idamante alla rivale in braccio?” Se la cantante non dice chiaramente queste parole come capisce il pubblico che sta assistendo a uno scoppio di gelosia? E dopo: “compagna / m’avrai là dell’inferno, / a sempiterni guai, al pianto eterno”. E così, l’attacco dell’aria, in cui Elettra rievoca i “tormenti” del fratello e di Aiace, se non ne percepiamo il nome, come facciamo a sapere che si sente impazzire come il fratello e che è tentata di suicidarsi come Aiace ( e qualche regista, infatti, le fa trafiggersi il seno con un pugnale o addirittura spararsi un colpo di pistola alla tempia)? E non si dimentichi che proprio mentre stava lavorando all’Idomeneo Mozart, in una lettera al padre, dice che il musicista drammaturgo deve stare attento alla “forza della parola”, e usa proprio l’espressione italiana. D’altra parte il pubblico dei teatri europei, nel Settecento, conosceva l’italiano. Confesso che in nessuna delle interpretazioni che ho trovato su You Tube, l’interprete soddisfa queste esigenze, nemmeno la pur bravissima Harteros. E veniamo adesso alla musica rinascimentale, dalla quale è partita la discussione.
Cipriano de Rore è un grandissimo compositore fiammingo che ha imparato così bene la lingua italiana da padroneggiarla come fosse la sua lingua madre, non solo, ma ha ugualmente approfondito la conoscenza della tradizione poetica italiana, da Petrarca fino al proprio tempo, al punto di riuscire perfino a rinnovare la tradizione del madrigale. Si può infatti far partire da lui l’inizio della cosiddetta seconda pratica, quella cioè che costruisce la forma musicale non già seguendo le regole del movimento contrappuntistico delle parti ma, lui fiammingo! modellando la forma musicale sulle figure retoriche del testo e le sollecitazioni delle immagini e dei significati in esso contenuti. Sta in poche parole costruendo una nuova retorica musicale destinata a imprevedibili sviluppi. Ora, per cantare siffatta musica bisogna fare il percorso inverso a quello che di solito intraprendono i cantanti, bisogna cioè partire non dall’intonazione della melodia, ma arrivare alla melodia attraverso la dizione chiara, percepibile e distinta del testo. Che sia possibile lo dimostra lo stesso Cipriano de Rore, che riesce appunto a possedere così bene la lingua italiana, da penetrarne come nessuno prima di lui i più segreti recessi espressivi. Perché non basta conoscere bene la lingua italiana, ma bisogna avere assimilato anche la sua tradizione poetica, almeno da Cavalcanti a Tasso e Guarino. Il verso italiano non è facile. La sua musica si affida a molte componenti. La scansione metrica, naturalmente, prima di tutto. Ma non solo. Un verso esteso come l’endecasillabo ha molti accenti, alcuni principali altri secondari e altri che si scontrano in sillabe attigue. “Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse”, è l’ultimo verso di un bellissimo e famoso sonetto di Foscolo (siamo nell’Ottocento, ma Foscolo riassume bene tutta una tradizione). Colpisce l’urto tra sesta e settima sillaba di “petrós(a)Ítaca” (la “a” finale di “petrosa” e la “i” inziale di “Itaca” si assimilano). Il musicista farà sentire qui un brusco cambiamento ritmico. O si leggano questi due versi che chiudono un’ottava della Gerusalemme Liberata di Tasso: “In che picciol cerchio e tra che nude / solitudini è chiuso il vostro fasto”. L’enjambement “nude/solitudini” ostacola lo scorrere dei versi, perché la voce non può fermarsi a “nude”, che chiude un verso, ma deve continuare dicendo il sostantivo di cui nude è l’attributo, “solitudini”, che apre il verso seguente. Il musicista prolungherà l’effetto forse con una dissonanza o con una strana legatura che unisca la conclusione di una frase e l’inizio della seguente. L’attacco di una famosa canzone di Dante colloca l’accento sulla settima sillaba dell’endecasillabo, invece che sulla sesta: “Donne che avete intelletto d’amore”. Non era insolito nella poesia del due-trecento, ma piuttosto raro nel primo verso di una canzone. In questo modo Dante dà rilievo a un concetto insolito – com’è insolita l’accentazione – che le donne abbiano non sentimento, bensì conoscenza, “intelletto”, dell’amore. E in un periodo in cui la conoscenza di solito veniva attribuita all’uomo (e chi sa, in Italia forse è ancora così) Dante ci sta dicendo che la donna ha conoscenza razionale della realtà più dell’uomo. Il musicista che volesse rendere musicalmente l’inconsueto accento dovrà trovare un accento della frase insolito (che so, sul tempo debole) o evidenziarlo con una dissonanza.
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Ecco la novità introdotta da Cipriano: è il poeta a guidare l’invenzione musicale del compositore. La musica diventa così non tanto una formulazione analogica del testo, tuttavia indifferente alla costruzione del testo, la musica s’impone bensì anzi come quasi un calco musicale delle immagini e delle soluzioni ritmiche del testo stesso. In altre parole il musicista costruisce un edificio musicale che reinventa musicalmente le strutture retoriche del testo, e fonda così una vera e propria retorica musicale. Che arriva fino a noi. Questo e non altro significa “serva dell’orazione”. Quindi non un pedestre attenersi al testo – come di solito si spiega – ma un dare ascolto alla musica già insita nel testo, al movimento dei significati e delle immagini per costruire una retorica musicale equivalente a quella con cui è stato redatto il testo. Ma questo è un altro discorso. En passant, Debussy e Musorgskij non si comportano troppo diversamente da Cipriano. Ma nemmeno Britten o Berg.
Ora, i cantanti che invece si preoccupano solo d’intonare precisamente le note scritte, e le intonano attenti solo alla loro precisione d’intonazione e bellezza di suono senza curarsi dell’accento che la parola ha nel corpo del testo, travisano e stravolgo l’intera costruzione musicale del compositore. Tanto per cominciare, per meglio intonare la nota emettono la sola vocale e trascurano, attenuano o addirittura omettono la dizione delle consonanti. Se io canto a-o-e, invece di amore, l’ascoltatore non capisce niente, e, anzi, peggio, è lo stesso cantante a non dare rilievo alla parola e al senso musicale che la parola ha nella frase. A-o invece di “aspro” non solo non fa intendere la parola, ma toglie alla musica, che magari in quel punto colloca una dissonanza, l’urto delle tre consonanti spr: à-spr-o. Sono solo due esempi per dimostrare quanto ciò che per il cantate puro è trascurabile, la dizione della parola, sia invece fondamentale anche per la resa musicale del brano. L’attenzione a ogni componente del testo, vocali e consonanti, obbliga il cantante a impostare differentemente la voce, la propria vocalità. Lo costringe soprattutto a buttare alle ortiche ogni idea di belcanto, che qui non c’entra per niente. Perché la bellezza di questo canto si affida ad altri parametri. Questo tipo di canto, infatti, e non sembri troppo audace o improprio il confronto, assomiglia di più allo Sprechgesang di uno Schoenberg che all’effusione melodica. Non siamo ancora alla lettera amorosa monteverdiana, ma già sulla buona strada per arrivare a quella. E si badi, mentre il melodramma italiano s’incamminerà appunto per la strada dell’effusione melodica. in cui è compreso anche il gioco delle agilità e dei virtuosismi vocali, l’idea di una più intima compartecipazione di testo e musica, di dizione e canto, si trasferisce di sana pianta nel teatro francese, nella Tragédie Lyrique, non a caso fondata da un fiorentino, Gian Battista Lulli, diventato Jean-Baptiste Lully. E da lì si può arrivare Gluck, a noi, oggi. Svilupperemo, forse, in seguito, questo tema. Ma mi fa andare in bestia la sufficienza, la superficialità, e – diciamolo pure – l’arroganza con cui, soprattutto dai non italiani, si continua ad affrontare questo repertorio. A goderne, bearsene, con colpevole ed epidermico estetismo, solo per i suoi supposti allettamenti sonori, come se la poesia che ne è all’origine non significasse più niente per noi, ma soprattutto non avesse avuto significato per il compositore, che invece si è profuso anima e corpo a reinventarne musicalmente il senso. Allora, o i cantanti, anche italiani, ma soprattutto non italiani, si decidono a impadronirsi perfettamente della lingua della tradizione poetica italiana – lo hanno fatto compositori fiamminghi come Willaert, Arcadelt, Lasso, Cipriano de Rore, non vedo perché non debbano farlo i cantanti – o lascino perdere, e non ci torturino le orecchie con i loro inespressivi, insignificanti – alla lettera: che non significano niente – borbotti sonori. O nei loro sonni udranno le voci dei compositori che hanno strapazzato assordargli le orecchie con impronunciabili improperi: il linguaggio dei musicisti e dei teatranti, allora come oggi, è assai ricco d’imprecazioni coprofile e d’insulti da bordello.
Pierre Boulez
Queste riflessioni hanno un corollario. Che vuole rispondere all’obiezione che certo mi verrà fatta da molti sull’incomprensibilità del testo in molta musica moderna, soprattutto delle neoavanguardie dell’ultimo dopoguerra. Mi limito a due soli compositori: Pierre Boulez e Luigi Nono. Nel Pli selon pli Boulez inserisce tre Improvisantions sur Mallarmé, tre sonetti, e l’ultimo verso di Tombeau. Le poesie sono tutte di Mallarmé. Tutta la composizione vuole essere, infatti, un ritratto di Mallarmé, che si risolve di fatto in uno splendido autoritratto dello stesso Boulez. Anche il titolo viene da Mallarmé. Ora, Mallarmé è poeta tra i più difficili che si possano leggere, il senso delle sue poesie rinvia sempre a una rete di sottotesti, allusioni, campi semantici sia lessicali sia grammaticali sia sintattici talmente complessi da richiedere da parte del lettore un grande sforzo di penetrazione intuitiva e culturale, di memoria poetica (si può dire dai trovatori alle avanguardie di fin de siècle, da Arnaut Daniel a Rimbaud). Lo stesso accade per la musica, sorta di sintesi da Machaut a Debussy, Messiaën e Webern. In genere Boulez ci tiene alla comprensibilità del testo, ma interpreta questa intellegibilità in maniera assai lata, dall’effetto sonoro della singola sillaba (e il francese ha molte parole monosillabiche) alla comprensione esplicita di un verso. Poiché, però, come Mallarmé, anche Boulez ama la molteplicità delle sovrapposizioni strutturali, non rifugge né dalla costruzione analogica di strutture musicali che corrispondano alle strutture poetiche, né dall’allusione madrigalistica al senso delle parole. Il sonetto è una struttura poetica che si presta male a una traduzione musicale strofica: due quartine e due terzine sono strutture asimmetriche. Allora Boulez sceglie la soluzione che fu già di Monteverdi, per esempio nel madrigale “Or ch’el ciel e la terra e il vento tace”, dall’VIII Libro dei Madrigali. Divide il sonetto in due sezioni separate, le due quartine, la prima, le due terzine, la seconda. In più, rispetto a Monteverdi, accentua la distinzione tra le quartine e tra le terzine inserendovi un intermezzo strumentale. L’ultimo brano di Pli selon pli, Tombeau, della poesia di Mallarmé intona solo l’ultimo verso: “Un peu profond ruisseau calomnié la mort”, un poco profondo ruscello calunniato la morte. “Mort” è l’ultima parola del verso, e dunque l’ultima parola anche intonata dal soprano prima che il brano – lo ricordo: si chiama Tombeau, tomba – si chiuda. A quel punto Boulez decide di restituire il senso della parola con un madrigalismo. Che cos’è la morte, se non la cessazione di qualcosa che c’era prima? Il problema se l’era già posto Debussy nel Pelléas et Mélisande. E non è escluso che Boulez rimandi proprio all’esempio di Debussy. Nell’ultimo atto Mélisande muore e nessuno se ne accorge. Se ne accorge però l’orchestra. Debussy segna un corona sulla stanghetta divisoria della battuta nel momento in cui Mélisande muore. Il silenzio contrapposto alla musica come rappresentazione simbolica della morte. Ma una pausa non sarebbe stata ancora silenzio, morte, perché la pausa fa parte del flusso musicale. Debussy chiede la cessazione della musica, arresta la musica nel momento in cui Mélisande muore. La corona sulla stanghetta è questa sospensione, questa interruzione, questo arresto. Boulez fa qualcosa di analogo. La morte è la fine del canto. In quel punto il soprano, arrivato alla parola “mort”, non la canta: la dice, a voce nuda, parlata.
Tutt’altro è il comportamento di Luigi Nono. Il senso del testo c’è già nel fatto che il musicista lo assuma come base per la sua costruzione musicale. Nono disintegra la parola fino a farne percepire isolate sillabe. Il testo, dunque, apparentemente, non è percepito, risulta incomprensibile. Fino all’estrema, quasi astratta sillabazione del Prometeo. Ma la parola c’è. Per esempio, l’attacco del Prometeo ha un testo greco, tratto dalla Teogonia di Esiodo: “Γαῖα ἐγείνατο”, Gea generò. Che l’ascoltatore senta solo gai da Γαῖα – oppure e o na da ἐγείνατο – non sono semplici gai, e, na, ma le sillabe contenute nelle parole da cui sono tratte e a dare loro senso sono quelle parole, che vengano o no percepite per intero. In altri termini il senso non è dato dalla percepibilità del testo bensì dalla memoria del testo di cui si percepiscono solo alcune sillabe. Se poi considero che quelle sillabe sono sillabe di parole di un verso di Esiodo, la comprensione si allarga, e ancora più se rifletto che Esiodo è chiamato in causa come poeta di miti greci in un’opera musicale che ruota intorno al mito di Prometeo.
Il cerchio qui si chiude. Come si vede, il rapporto tra testo e musica è assai complesso, di epoca in epoca e di compositore in compositore. Ma ciò che l’interprete non dovrà mai dimenticare, né tanto meno trascurare, è quale tipo di rapporto il compositore stabilisca di volta in volta tra testo e musica. Non esiste, infatti, un unico modo d’interpretare un canto perché non esiste un solo tipo di rapporto tra testo e musica nei canti. La libertà d’interpretazione finisce quando l’interpretazione travalica o snatura il rapporto voluto dal compositore. In genere, ciò che dà fastidio, in molti interpreti di oggi, è la prospettiva quasi unicamente musicale con cui leggono una partitura in cui venga intonato un testo. Come se qualsiasi canto possa essere cantato nello stesso modo e come se il rapporto tra testo e msuica sia sempre lo stesso e sia sempre la musica a guidare la voce. Ora, il prevalere di una lettura puramente musicale può essere sopportabile in certa musica vocale in cui la musica travolge davvero il testo, per esempio in certe arie di Handel o di Rossini. Ma fino a un certo punto, anche in Handel e Rossini, perché anche lì il tipo di elaborazione musicale nasce proprio dal testo, dalle immagini del testo. Ma la libertà d’interpretazione diventa un tradimento, un travisamento quando si affronta il madrigale italiano, soprattutto da Cipriano in poi, o il recitar cantando monteverdiano, e venendo vicini a noi quando ci si confronta con un Debussy. In realtà, anche Verdi o Puccini.
E anche qui, non si fraintenda l’impostazione che il musicista pretende da parte dell’interprete. Non si tratta di far capire le parole all’ascoltatore. O non solo di questo. Si tratta, e ciò riguarda la struttura stessa della pagina, prima ancora che la sua interpretazione, si tratta da parte dell’interprete di farsi carico dell’intenzione del compositore. E’ l’interprete che deve capire quale rapporto ci sia tra la parola e il canto, proprio perché canti la parte come il compositore l’ha pensata, e ciò vale per Cipriano o Monteverdi, come per un Lied di Schubert o di Schumann o una chanson di Debussy. Il cantante non deve dimenticare mai che questi musicisti erano appassionati lettori di poesia e che una poesia la intonano proprio per cavarne fuori il suo messaggio più segreto. Petrarca per Monteverdi, Goethe per Schubert, Verlaine per Debussy non sono pretesti per intonare una qualsiasi canzone, ma testi, poesie, di cui mettere in risalto le qualità musicali che una semplice lettura non rileva. Ma sia per Monteverdi, sia per Schubert, sia per Debussy, le poesie di Petrarca, Goethe, Verlaine sono già musica, e non parole inerti che abbiano bisogno di trovare il canto. Il canto, la musica non è un’aggiunta sovrapposta a una materia senza musica, ma la rivelazione musicale di una musica già insita nel testo della poesia. Se non si compie quest’analisi, se non si affronta questo percorso, meglio non affrontare questo repertorio. Anzi, forse, meglio proprio non cantare affatto. I cantanti della musica cosiddetta “seria”, “colta” (come se l’altra fosse incolta!) apprendano dai cantati della musica cosiddetta leggera, o pop, o rock, o folk, i quali verrebbero fischiati, subissati d’insulti se ai loro fans cantassero incomprensibili scioglilingua. Chi voglia e possa, l’ascolto di qualche canzone di Mina insegnerebbe molto di più su Monteverdi e Debussy, di quanto si pensi di sapere quando ci si pongono inutili e insolubili questioni d’impostazione della voce, di apertura o chiusura del diaframma, della bocca, dove appoggiare la lingua, di vibrato e non vibrato e cose simili. Non perché non si debbano affrontare, ma perché una volta risolte, si è ancora solo al principio. L’interpretazione deve ancora cominciare. Anzi, deve ancora cominciare la lettura e comprensione della pagina che si vuole interpretare. La via della conoscenza, ci dice Eraclito, non è mai quella che appare a prima vista.
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1Su tutte le cime / è pace; / in tutte le chiome / non trasenti tu / nemmeno un respiro; / gli uccellini tacciono nel bosco. / Aspetta, soltanto, presto / riposerai anche tu.
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