Musica
Viva Puccini, l’imbarazzante omaggio di Telemeloni al maestro
Più che Viva Puccini avrebbe dovuto intitolarsi Muoia Puccini. Sì, è l’omaggio che Telemeloni ha voluto dare al maestro aggiungendosi alle celebrazioni in corso, per di più su RAI 3, il feudo culturale della sinistra, espugnato.
Ma voglio cominciare con una nota positiva. La vera rivelazione della serata è stata Beatrice Venezi. Ma non come direttrice (o direttore, come vuol essere chiamata lei) d’orchestra, bensì come conduttrice (o conduttore?) televisiva. È a lei che bisogna far presentare il Festival di Sanremo, non a quelle mummie di Amadeus o di Conti, che non se ne può più. Venezi è sicura di sé, è altissima, bellissima, biondissima, ha un italiano impeccabile, senza alcuna inflessione regionale, un sorriso porcellanato che riflette le stelline, e una presenza notevole: il suo décolleté farebbe sognare gli itagliani. I suoi interventi parlati rendevano lei la regina della serata e Bianca Guaccero, co-conduttrice, una delle sorellastre di Cenerentola capitata lì per caso. Ma era l’unica nota positiva.
Viva Puccini avrebbe voluto essere, nelle intenzioni degli autori, tra i quali è anche Venezi, una sorta di varietà vecchio stile coi panni risciacquati nella modernità. I varietà della RAI degli anni Cinquanta e Sessanta erano i più belli del pianeta, perché attingevano a un inestimabile bagaglio culturale nazionale e, con occhi attentissimi, a quello internazionale in quanto c’erano Vito Molinari, Filippo Crivelli, Antonello Falqui, Terzoli e Vaime, c’erano le Kessler, una schiera di cantanti pop veri, c’era il Quartetto Cetra, Mina, Franca Valeri, c’era Don Lurio! e così via.
Io con quelle persone ci ho lavorato, alla fine della loro carriera, in teatro, e ho appreso moltissimo da quei mostri sacri. Chiacchierare con loro, nei tempi che restavano oltre le prove, era stare ad ascoltare la storia dello spettacolo da chi l’aveva fatta.
Guardando sto Viva Puccini, l’impressione che mi è rimasta, anzi, che si è delineata fin dalla squallida Anteprima, era quella di uno spettacolo appiccicato “colla sputazza”, come si dice in Sicilia, con cose di un certo livello (pochissime) e un resto di rigovernato male, come se fossero decalcomanie prese dal rigattiere, senza una coscienza di uno spettacolo coerente, ossia dell’unica maniera in cui bisogna concepire uno spettacolo.
L’Anteprima, di una decina di minuti o poco più, consisteva in una gag malriuscita di un imitatore di Corrado Augias, musicomane blasonato, che conduceva le sue trasmissioni sull’opera e sulla musica, sì, forse un po’ soporifero, ma è un uomo d’altri tempi, con un garbo e una misura oggi sconosciuti. Oltre che di grandissima cultura, oggi sconosciuta anche questa. L’imitatore, di cui non conosco il nome, si è limitato a tratteggiare un vecchietto nevrotico e pasticcione che avrebbe voluto dirigere l’orchestra e fare due o tre battute da svampito, cosa che Augias non è, anzi, tutt’altro. Cose a livello di Pingitore e del Bagaglino, insomma, un avanspettacolo Mediaset sul becero andante. Voleva essere una sorta di rivalsa sulla cultura vera? Prima di concepire uno spettacolo diverso da quest’obbrobrio ci vorrebbe tanta, tanta cultura. Anche un centesimo di quella che ha Augias.
Oltre la Tregenda delle Villi, che ha aperto la parte musicale, affidata alla Nuova Orchestra Scarlatti, nata dalle ceneri della vecchia orchestra RAI di Napoli, subito si viene proiettati nel mondo pucciniano con Nessun dorma, l’inizio e la fine del percorso compositivo del maestro. Era inevitabile che Nessun dorma facesse parte del menù, ormai lo canta pure l’intelligenza artificiale. Qui era affidato al tenore turco Murat Karahan, il quale ha fatto sfoggio di epentesi e di pronunce italiane un po’ approssimative, senza il minimo senso della prosodia. La grande assente era l’interpretazione. E questo è un vizio comune a molti cantanti, sia italiani che stranieri, che amano vomitare l’acuto sul pubblico, spalmando per bene la voce, anche possente, sulla platea, senza però capire la quantità di voce giusta né l’articolazione dei suoni necessari per cantare il repertorio italiano. Nessun dorma secondo Karahan e Venezi pareva un saggio di fine corso di un allievo così così, con acuti, questo sì, ma non veramente cosciente di chi fosse Calaf, mi trovavo a passare dalla Rinascente, cercavo una termocoperta e sono uscito con una pentola a pressione, alla cassa c’era un annuncio che cercavano un Calaf e io mi sono presentato e mi hanno preso. Un po’ così. Ma la sorpresa arriva alla fine dell’aria con una coda inattesa. E, possiamo dirlo, assolutamente anodina. Maurizio Solieri, chitarra rock di Vasco Rossi, è stato incaricato dagli autori del programma a esibirsi in una sua improvvisazione su Nessun dorma, aggiungendosi a una schiera di interpretazioni che da sole riempirebbero un archivio musicale. Veramente brutta. Così come veramente forzati i commenti suoi, di Venezi, della Guaccero, di tutti, che suonavano, si può dire?, falsi come le banconote del Monopoli. È Puccini, perbacco! Per riarrangiare Puccini devi essere un genio come lui (Morricone, per esempio, ma ci arriviamo, perché anche la sua musica ha fatto parte del frullato), altrimenti il prodotto è mediocre, come volevasi dimostrare. Ma fatti le canzoni di Vasco dove sei straordinario. Puccini non è cosa per te (come per molti altri protagonisti della serata).
Nessun dorma, dicevo, è inevitabile, in uno spettacolo su Puccini. È diventato il tormentone, l’opera è solo “vincerò!” , ha ragionissima Riccardo Muti quando dice che non può più ascoltare l’acuto ginnico, tenuto fino al parossismo respiratorio, perché gli dà la nausea. Grazie, maestro Muti. Dovrebbero ascoltarla un po’ di più e prendere lezioni di direzione d’orchestra, anche.
Ed essendo inevitabile, anziché fare una cosa scontata, ossia il tenorone che canta “vincerò”, si sarebbe potuto fare un pot-pourri dei Nessun dorma della storia del cinema, della televisione, dei varietà, gli archivi RAI sono stracolmi. Volendo fare una cosa ironica avresti anche potuto far sentire le versioni per theremin, per fisarmonica, per ocarina, o la versione agghiacciante e tascia di Aretha Franklin e quella surreale e altrettanto tascia di Sarah Brightman ( ebbene sì, due donne, ma c’era stata anche Deanna Durbin (None Shall Sleep…!) in un passato remoto) o quelle dei vari Britain got talent dove nuove Nikke Coste si propongono soprani in vena tenorile, proprio per sdrammatizzare il brano iconico e poi, alla fine, farlo ascoltare per bene dal vivo cantato da un tenore vero, ma non il turco in Italia, bensì un tenore di doti straordinarie che ti fa assaporare ogni sillaba e ti riporta alla magia di un’aria bellissima come questa. Ma per fare la magia bisogna essere maghi e Venezi non lo è: non trae dalla sua orchestra dei fraseggi intensi che pure la scrittura pucciniana suggerirebbe, sembrava tutto un po’ una prima lettura, come pure quella del tenore turco, che inseriva bizzarri dittonghi (oltre alle epentesi) un po’ come fa Piero Pelù nelle sue canzoni. E stùdiatelo bene l’italiano se vuoi cantarlo! Ma qui la responsabilità è di chi gli ha proposto codesta esibizione. Insomma, è la RAI, non Tele Bitonto.
Ahi, mi sono detto, e siamo solo all’inizio.
Tra le smancerie di Bianca Guaccero, che recita la parte di una teenager eccitatissima che scopre Puccini, coadiuvata da Venezi che sembra la Fata Turchina che spiega le cose a Pinocchio, per restare sempre in ambito toscano, visto che l’è di Lucca, e le smancerie di altri artisti chiamati a recitare le lettere di Giacomo Puccini, ossia Gianmarco Tognazzi, pure un po’ simpatico ma non utilizzato bene in un copione da villaggio turistico disneyano (perfettamente in linea coll’Open to Meraviglia del ministero del turismo), o di vari esperti di melodramma come Enrico Stinchelli o di D’Annunzio, come Giordano Bruno Guerri, che raccontano i pettegolezzi pucciniani sulle donne o sulle opere, lo spettacolo va avanti tra arie, brani sinfonici, incisi, e, poiché bisogna avvicinare i giovani alla lirica e quindi “svecchiare il linguaggio”, si fa l’operazione commistione. L’operazione commistione consiste, spesso, almeno in teatro, nel realizzare un allestimento in tempi moderni, con costumi e scene del quotidiano, o comunque di un’epoca più vicina a noi, in modo che i ragazzi si possano “riconoscere” nel moderno. Operazione oscena, spesso e volentieri, perché schizofrenica: si assiste a uno spettacolo che usa strumenti antichi e voci classiche ingabbiate in un libretto con una lingua arcaica che agiscono su un palcoscenico distopico. Spesso solo per narcisismi registici.
La commistione di antico e moderno ha invasato gli autori di Viva Puccini come un must senza il quale non si sarebbe potuto fare quel varietà. Ci sta pure, per carità, ma bisogna saperla fare. E poi quante didascalie, ma basta! E si doveva spiegare la trama e chi era il personaggio e cosa faceva e dove, appesantiva la già pesante sopportazione, non essendoci star della lirica su cui concentrarsi. Tutt’al più avresti potuto metterle come se fossero state quelle del cinema muto, coevo di Puccini: si apre la scritta su fondo nero che occupa tutto lo schermo e amen. Ma per farlo ci sarebbero volute, appunto, conoscenza e ironia. Sì, ironia, non tasciume. E allora si coinvolge il pop contemporaneo, per far vedere quanto Puccini fosse pop, infilandocelo a forza. Per i giovani… seh.
Lo spezzone RAI che viene presentato sullo sfondo, con Mina e Dorelli che cantano la Bohème, fantasticamente arrangiata da Gianni Ferrio secondo il gusto degli anni Sessanta, una specie di Puccini rivisitato da Amando Trovajoli, funzionava perfettamente. Ma funzionava perché c’erano due mostri della canzone italiana come loro due e un musicista come Ferrio. Il Nessun dorma per sei corde di Solieri era semplicemente un tentativo venuto male.
Ma proseguiamo.
Varie voci si alternano in quest’omaggio a Puccini che se ci fosse stato lui vivo si sarebbe alzato e sarebbe andato a schiaffeggiare tutti perché la sua musica non avrebbe mai dovuto subire quel trattamento. Il tenore che ha cantato la gelida manina, Michele Cerulo, dall’aspetto giovane, aveva una bella voce, senza dubbio. Ma monocorde, dall’inizio alla fine. Sembrava che cantasse l’elenco telefonico. Né suggerimenti musicali appropriati provenivano dall’orchestra. Ma è Puccini, La Bohème, perbacco! Ma come, è proprio tutto scritto, basta entrarci dentro e lasciarsi andare alla passione e si è sicuri di non sbagliare. Infatti, l’unica vera cantante lirica della serata era Carmen Giannattasio, che ha cantato Vissi d’arte con autentica presenza vocale e interpretativa. Brava. Il suo Scarpia, Alberto Gazale, sembrava anche lui uscito dalla Rinascente, ci serve uno Scarpia, tu lo sai il ruolo? dai, vieni qui tu anche, dura solo cinque minuti il tuo intervento, ti paghiamo, naturalmente.
Ecco, cose così.
L’assalto ormonale di Scarpia a Tosca, che dovrebbe avere tinte foschissime (ma qui rasentava il grottesco), un tentativo di stupro in piena regola viene, per fortuna, interrotto brutalmente da un filmato assai toccante, che è il monologo di Franca Rame che racconta il suo terribile stupro, avvenuto realmente. Scioccante, però in qualche modo pertinente. Quasi che nell’opera di Puccini ci fosse una volontà di denunciare i maltrattamenti alle donne, come sottolineato in parallelismi durante la serata.
Ma passiamo ai presunti eredi di Puccini. E qui Venezi indica in Andrew Lloyd Webber uno dei più celebri. L’autore di musical come il Fantasma dell’Opera, Jesus Christ Superstar, Cats viene preso ad esempio con due brani da Cats, Jellicle Ball e Memory. Ora, se proprio vuoi far comprendere come Webber abbia saccheggiato Puccini e puoi anche sfruttare l’occasione per riallacciarti all’esotismo del maestro, scegli The Music of the Night dal Fantasma dell’Opera, dove c’è una frase copiata dal primo atto della Fanciulla del West, e scegli, per cantarla, un grande artista, anche lirico, ma un vero cantante, un cameo. I gatti sul piccolo proscenio davanti all’orchestra erano qualcosa che con Puccini non c’entrava proprio una minchia fritta. Brava, comunque, la cantante che ha impersonato Grizabella, the glamour cat, e la sua Memory (in italiano), Giulia Fabbri, mentre l’orchestra sembrava un po’ disconnessa col pop e rilasciava miagolii dei violini non certo voluti, e questo anche durante altri brani.
L’impressione è che Beatrice Venezi volesse fare l’Arthur Fiedler della situazione, ma Arthur Fiedler era un grande direttore e aveva a disposizione la Boston Pops, un’orchestra in grado di suonare con proprietà il repertorio classico e quello leggero. Ecco quello che ci manca oggi, un’orchestra così, alla Trovajoli, alla Morricone, alla Mantovani, che per questi eventi di contaminazione sarebbero l’ideale. La Nuova Scarlatti non lo è o, forse, potrebbe esserlo con un numero di prove maggiore e una vera direzione, costante, che insista sui repertori. E, naturalmente, con delle idee.
Morricone, c’era anche lui nello spettacolo, citato a proposito del West, e quindi della Fanciulla del West. E forse, più che Webber, era lui un erede più prossimo di Puccini, in quanto inventore di grandi melodie e di orchestrazioni magistrali. Lo ha rappresentato Frida Bollani, giovane figlia d’arte in ascesa, pianista e, ahimè, cantante, che si è esibita in una versione pianistica di C’era una volta il West. Se al piano Frida era assai gradevole, il suo canto, pensato per l’inarrivabile Edda Dell’Orso, mostrava necessità di studi da approfondire sulla tecnica, soprattutto. Ma ce la potrebbe fare. Frida si è esibita in seguito in una versione per pianoforte e orchestra di O mio babbino caro, diciamo omeopatica.
Ah sì, c’era anche Malika Ayane, col microfono attaccato alle labbra, che cantava due suoi brani arrangiati con orchestra, come a Sanremo, uno dei quali, Grovigli, esprimeva bene la lingua che si attorcigliava nella bocca producendo ogni tanto strani suoni. Ma che c’entra Ayane con Puccini? Svelato il mistero: da piccola faceva parte del coro di voci bianche nella Tosca alla Scala. E c’era pure Filippo Graziani, figlio di Ivan, che cantava la canzone del padre “Pigro” relazionata a Puccini accusato di pigrizia dall’interlocutore di turno, connessione necessaria e sufficiente, evidentemente. Che c’azzecca?
Un valzer di Musetta non indimenticabile, affidato a Ilaria Monteverdi, e brani sinfonici pucciniani a volte coreografati. È il caso di Suor Angelica, dove tre danzatrici hanno provato a trasportare in danza il dramma della povera sorella. Anche qui, sì, certo, si può fare, ma non in quello spazio. La danza, soprattutto se vuoi far risaltare il linguaggio corporeo, va eseguita in uno spazio neutro, con luci adeguate su sfondo nero, magari, non sul proscenio davanti all’orchestra perché si perde la percezione dei movimenti, che si confondono con quelli della direttrice (pardon, direttore) e dei musicisti. Meglio un filmato, magari girato in un convento abbandonato e coordinato colla musica dal vivo, ma bisogna averci le idee. E, last but not least, un brano da Star Wars dove c’è un tema pucciniano trafugato da John Williams.
Le occasioni per fare un vero varietà su Puccini erano mille e una. Ma per farlo veramente bisogna avere una cultura profonda sia del classico che del pop, altrimenti è una ratatouille stantia, come Viva Puccini. Si poteva citare, cogli spezzoni adeguati, la Tosca nel cinema, colla Lollo e Jeannette MacDonald, La donna più bella del mondo (1955) e Rose Marie (1936), e arrivare a Tosca e altre due, con Franca Valeri e Adriana Asti (2003), e a quella nei tempi e nei luoghi per la tv di Patroni Griffi (1992), per esempio, col fantasma di Puccini che avrebbe potuto guardare stupefatto i nuovi mezzi sonori metateatrali a disposizione e ipotizzare quanto assai probabilmente lui avrebbe scritto anche colonne sonore, se fosse sopravvissuto. Ma chi ha scritto i testi sarà mai stato al corrente delle citazioni cinematografiche? Non è necessario essere di destra o di sinistra, perché la cultura vera non è definibile secondo quei canoni ristretti, sebbene questo Viva Puccini sia un chiaro messaggio che anche la destra, anzi, soprattutto la destra, voglia mostrare di avere una cultura (e la rivendica con orgoglio).
A proposito di cultura: lo sfondone di Beatrice Venezi che sdogana il suo pensiero secondo cui dopo Puccini il melodramma muore forse non tiene conto che, in Italia, dopo la morte di Puccini ci siano stati operisti come Ottorino Respighi, Alfredo Casella, Ildebrando Pizzetti, anche Pietro Mascagni, colle ultime sue due opere, Nino Rota, e all’estero Richard Strauss, Benjamin Britten, Igor Stravinsky, Leonard Bernstein, eccetera. Decretare la morte del melodramma con Puccini significa ignorare tutto il resto. Non va bene, Beatrice Venezi, lo sa? Men che meno per una consulente culturale del ministero. E, adesso che Venezi è un’accreditata divulgatrice (cosa che le vien bene, dal punto di vista attoriale, come abbiamo rimarcato), di sicuro ci sarà chi prenderà questa sentenza per oro colato e la farà diventare vera: l’opera è morta con Puccini. Ma sti testi, chi glieli scrive? Le guide di Disneyland?
AH. Il finale. Per evidenziare le ultime note scritte da Puccini gli autori hanno pensato di far cantare il coro dopo la morte di Liù da Turandot ai solisti presenti con un effetto grottesco, anche perché si trattava di pochissime battute. Un quintetto vocale non potrà mai avere l’effetto del coro, soprattutto con delle voci come queste. Meglio niente, era inutile e, soprattutto, l’effetto era squallido. Si voleva forse ricordare Toscanini che disse, posando la bacchetta alla fine della prima di Turandot «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto»? Meglio dirlo solamente come citazione anziché fare quelle figure.
Una cosa che vale per tutti: quando si abborda un repertorio così noto e importante non è sufficiente leggerlo e fermarsi a un’interpretazione standard. Bisogna aggiungere qualcosa, ma non è una scenografia, un costume o un aneddoto. È un’interpretazione musicale certamente canonica ma con venature di modernità che mostri come la musica del passato ha ancora da dirci molto; in quella di Puccini le chance interpretative si sprecano, è tutto suggerito dalla scrittura. O, meglio, si sprecherebbero se solo gli esecutori avessero una coscienza interpretativa e una statura artistica di livello. Cioè, non ha funzionato né come concerto classico né come varietà. Operazione fallita.
Come sempre più spesso accade, la famosa cultura, così sbandierata e strumentalizzata, diventa la parodia di sé stessa. Involontariamente. Melonian Age. Ma anche dalle parti della sinistra non intravedo grandi inventori, non più, o, almeno, non viene data loro la possibilità di esprimersi.
Di certo ciò che è morto è il varietà italiano. Incapaci, un’occasione formidabile come questa, in altre mani, sarebbe stata molto più creativa e costruttiva. Penso a persone come Vito Molinari o Filippo Crivelli (buonanima). Invece è stata l’ennesima prova del trash in cui il paese sta sprofondando. E succede in tutto, anche nell’editoria, nelle arti, tutto sempre più in basso.
P.S. Se ho tralasciato qualcuno o qualcosa è perché non erano degni di menzione, nel bene e nel male.
Devi fare login per commentare
Accedi