Musica
Moonage Deaydream, Bowie come non l’avete mai visto
“In this age of grand illusion
You walked into my life
Out of my dreams
Sweet name, you’re born once again for me”
Cosa ha fatto di Bowie un mito? Uno di quelli che il tempo non seppellirà mai? Un artista che il tempo, invece, renderà immortale e che continuerà ad appassionare anche le nuove generazioni lontane dai tempi che lui ha vissuto e reinterpretato attraverso le sue canzoni
Bowie è un ribelle, un performer sicuramente, un eclettico, con un intenso desiderio di vivere la vita, sperimentare. Il documentario che ripercorre la sua vita apre con una frase di Nietzesche sulla sua affermazione che “Dio è morto”. Senza più punti di riferimenti, senza la possibilità che l’uomo possa afferrare un’ancora di salvezza nei momenti di profonda prostrazione ne consegue l’impossibilità di concepire il presente come valore in sé, libero da passato e futuro, eticamente immotivato.
Ne deriva un grande vuoto, Bowie cerca di riempirlo andando alla ricerca di sé, sperimentando, forzando sempre un po’ il limite, l’intera sua vita, dirà, sarà come camminare su una lastra di ghiaccio col pericolo sempre imminente che quel sottile strato si frantumi e che lui possa annegare.
Bowie inizia il suo percorso artistico e umano all’età di 16 anni. Nasce nel 1947, a Brixton. La periferia gli va stretta, è noiosa, tutto avviene secondo i canoni, tutto è schematico, è soffocante, a limite del deprimente. Intervistato, dirà che il padre è morto, la madre vive in un appartamento che ha acquistato. I genitori non sono figure di riferimento, sente che tra loro non c’è amore, non li ha mai visto scambiarsi un’effusione. Notevole influenza nella sua vita l’avrà il fratellastro Terry, fu lui a passargli “On the Road” di Kerouac, quella che fu un’iniziazione alla sua nuova vita, un passaggio dalla noia della periferia in cui l’identità è già scritta nel copione di vita che ti vieta di essere quello che sei alla voglia di scoprire la propria identità mettendosi alla prova, superando quel confine che ci autodetermina. Sarà sempre Terry a introdurlo alla musica di John Coltrane, un fratellastro che finirà per rinchiudere la sua diversità in un clinica in seguito all’isteria di cui inizia a soffrire dopo essersi arruolato nella Raf. Bowie lotta una vita intera per non soffrire di quella tara ereditaria che è la malattia mentale di cui sono affetti in famiglia.
I primi successi li otterrà tra il 19770 e il 72. Temi quali l’alienazione, il senso di vuoto, di solitudine che attanaglia l’individuo, l’incomprensione, pervadono i suoi testi. Le fans vanno in delirio per quella figura androgina che non si fa scrupolo a rivelare la sua bisessualità, vedono in lui un alito di respiro alle inquietudini che macerano loro dentro, colui che è capace di incarnarle ed esprimerle cantandole come situazione esistenziale.
Quella di Bowie è un’esperienza in cui arte e vita camminano in parallelo, è un Dorian Gray che non anela all’immortalità ma che dinanzi lo specchio prova mutazioni estetiche, coreografie, mimiche facciali che esprimono all’unisono il senso di quanto esprime. Un’esperienza in cui vita e arte si mescolano come i colori che ama imprimere sulle grandi tele. La pittura accanto alla musica sarà l’arte in cui riesce a esprimere sensazioni, emozioni, percezioni: ama Tiziano, Tintoretto, Man Ray, ma a differenza della musica, la pittura è un’arte che resterà più intimista, rifiuterà più volte di esporre. I ritratti fatti a Berlino ritraggano soprattutto la sofferenza di chi è riuscito a ritagliarsi un’esistenza decente nella Berlino Ovest, ma ha dovuto lasciare dall’altra parte del muro familiari e affetti; sono ritratti personali, intimisti, che preferisce non condividere con occhi che quella sofferenza la vede ritratta, ma non l’ha vista nella realtà. Una sofferenza che decide di tenere lontano da sguardi che sarebbero attenti alle sue capacità di pittore ma che non coglierebbero, forse, il dramma a cui lui ha assistito.
Una vita al limite, quella di Bowie, in cui lui ama mettersi sempre alla prova, forzare sempre un po’ di più il conosciuto per penetrare nei meandri dell’ignoto, di quelle situazioni che provocano disagio perché bisogna affrontare ciò a cui non si è abituato, a districarsi in avventure sempre nuove. Un modo per conoscere se stessi, per non lasciarsi mai andare, per assecondare il flusso della vita che ci permea, ci cambia, ci fa assumere forme nuove e diverse. Il Buddismo che pure ha accarezzato per un po’ la sua vita lo rende plastico, accogliente.
Achille Lauro, Henry Style, sono una replica di un modo di intendere la vita fuori dello schema che Bowie ha anticipato 50 anni fa, tempi in cui i cambiamenti storico-sociali iniziavano ad assumere il ritmo della velocità. David cresce. Se il ragazzino sfidante e che risponde ironicamente alle interviste afferma di non sapere chi è, parla di miti costruiti dai fans che, come accade a Dylan, John Lennon, Mick Jagger, in realtà non esistono se non nella mente di chi quei miti li crea, raggiungerà un’alta consapevolezza di sé. Abbandonerà, infatti, i travestimenti iniziali con cui tendeva a nascondersi usandoli come una corazza al punto da creare un suo alter Ego, Ziggy Sturdust, travestimenti che gli erano serviti a creare un personaggio che sebbene esprimesse bene gli umori del tempo, non lasciava trapelare la sua profonda emotività. Senza quell’impalcatura Bowie riesce a diventare più immediato, sicuro, a esprimere un senso più pieno della vita in cui si lascia attraversare dalle nuove forze che attinge dai viaggi di scoperta.
Il viaggio per Bowie ha sempre un movente iniziatico, abbandona la forma sperimentata per assumerne un’altra nuova, diversa. Una forma che esprime nella scrittura, e nella sperimentazione di nuove sonorità sempre accompagnate da un’attenta osservazione del reale. Bowie è sempre stato fuori dai circuiti classici della musica, si è mescolato tra la gente, l’ha osservata, ha sperimentato tradizioni e modi di intendere la vita alle più diverse latitudini del globo. Temeva, per quanto fosse permeabile, il suo viaggio in Oriente, temeva che quella cultura lo avrebbe assorbito e lo avrebbe rapito per sempre. Una parola che nel vocabolario di Bowie non poteva esistere, lui sempre in transito, sempre alla ricerca della nuova forma da assumere, lui sostenitore dell’estemporaneità del durevole.
Anche l’America, che inizialmente odiava, imparò ad apprezzarla. Si rifugiava nel suo appartamento preso in fitto a Los Angeles per mettere giù testi dopo aver osservato il grande luna park che un paese fatto, a suo parere, per intrattenere, gli suggeriva. Bowie non ebbe mai una casa, una permanente intendo. Si rifiutava di acquistarne una, la sua casa era il mondo in cui pian piano si sentiva sempre più a suo agio, libero di essere ciò che voleva essere, libero di non produrre per compiacere i fans. Voleva che ai suoi fans piacesse ciò che lui era capace di creare. Ciò che ha reso la sua vita splendida è il suo essere al di fuori di ogni condizionamento, sapeva di essere una star, ma non si è lasciato fagocitare dallo star system, non si è lasciato annichilire dagli stravizi della ricchezza, ha trovato una sua dimensione mantenendo sempre il contatto con quela realtà che poi trasportava nei suoi testi.
L’incontro dell’amore, cosa che escludeva perentoriamente dichiarandosi incapace, lo trasforma. Diventa più stanziale e riesce ad esprimere quella dolcezza e quella profonda sensibilità che per tutta la vita aveva cercato di tenere imbrigliata, e che solo pervenuto a una maturazione riesce a trasmettere al suo pubblico.
Una nuova rinascita, in cui non è più solo e quel senso di appartenenza al mondo a cui è lentamente pervenuto, è, ora, più completo, più saldo, più profondamente consapevole.
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