Musica

Monteverdi, qualche chiarimento sul recitar cantando

28 Febbraio 2019

Claudio Monteverdi, prima ancora di essere un sommo compositore è un grande drammaturgo. La genialità della sua impostazione drammaturgica sta nella perfetta interazione di parola e musica, l’espressione citata spesso a sproposito che la musica debba essere “serva dell’orazione” non significa che la musica debba ubbidire al testo e seguirlo pedissequamente, ma che la struttura del testo è già la struttura musicale del canto e il canto assolve non già una funzione musicale, o non solo una funzione musicale, ma soprattutto la funzione di attuare la rappresentazione del dramma. Bisognerà aspettare Musorsgskij e Debussy perché sia riproposta in teatro una tale assimilazione paritetica di parola e musica per costruire una drammaturgia in cui la distinzione tra musica e parola scompaia. Sotto questo aspetto il teatro di Monteverdi – e in qualche modo sono teatro anche i madrigali, almeno dal Settimo Libro in poi, si pensi al Lamento della ninfa o al Combattimento di Tancredi e Clorinda – è un’opera aperta, nel senso che, come quello di Wagner (ma anche di Verdi), acquista tutto il suo peso, tutto il suo senso, solo sulla scena: il puro ascolto non basta, in qualche modo lo mutila di un elemento fondamentale: la rappresentazione.

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Ma su questa equiparazione di parola e musica vanno chiariti molti punti. Perché c’è molta confusione, soprattutto tra i musicisti. Tanto per cominciare, siamo talmente abituati a considerare la musica come elemento predominante del teatro musicale, anzi del teatro d’opera, che ci pare naturale prestare maggiore attenzione all’impostazione vocale che alla recitazione del testo, anzi spesso per recitazione non s’intende nemmeno la dizione corretta della parte, ma il gesto del cantante, l’azione visiva sulla scena. Su questo punto va fatta chiarezza.

Intanto, quando si parla di teatro musicale, va precisato, sempre, di che tipo di teatro musicale stiamo parlando. Il melodramma fiorentino non è quello poi che attua a Mantova Monteverdi con l’Orfeo, e lo stesso Monteverdi a Venezia imposta un nuovo tipo di melodramma: gli strumenti vi hanno una parte quasi secondaria, ed è invece accentuata l’importanza della recitazione. Questo prevalere della recitazione sul canto, o, più esattamente, intendere il canto come un modo di recitare, si radica presto nel costume teatrale italiano. La direzione è già chiaramente indicata da Monteverdi quando per la prima rappresentazione dell’Arianna, morta a soli 18 anni, durante le prove, il 7 marzo 1608, la Romanina, Caterina Martinelli, che Monteverdi si era allevata in casa fin da bambina, quando aveva 13 anni, scelse per la prima rappresentazione non una cantante, ma un’attrice, la milanese Virginia Ramponi, moglie di Giovan Battista Andreini. Proprio l’esito grandissimo della sua prestazione come attrice cantante nell’Arianna, le fece poi condurre una duplice carriera di attrice e di cantante. Il Bronzino le fece un ritratto, oggi perduto.

Per la morte della sua diletta allieva, Monteverdi compose una sublime collana di sei madrigali (il testo, di Scipione Agnelli, è una sestina) dal titolo Lagrime d’amante al sepolcro dell’amata. L’attacco è indimenticabile sia per la bellezza dei versi che per la violenza espressiva del canto:

Incenerite spoglie, avara tomba
Fatta del mio bel sol terreno Cielo,
Ahi lasso! i’ vegno ad inchinarvi in terra,
Con voi chius’è ‘l mio cor a’ marmi in seno,
E notte e giorno vive in pianto in foco
In duol’in ira il tormentato Glauco.

Il miracolo è una polifonia costruita non su melodie, ma sulla recitazione del testo. Si ascolti il grido del Ahi lasso!, nella trascrizione moderna di Malipiero, alla 12a battuta: una quinta discendente seguita da un semitono, l’attacco dell’Alto, mi-la-sol diesis, e subito vi si sovrappone una terza e semitono del Quinto, la-fa-mi, omoritmico col tenore che intona mi-do-si, ma subito ripropone la quinta, mi-la, che scende al mi. Su questo disegno l’Alto intona una sorta di lamento, propone una terza che si adagia su una sorta di melisma intorno al do: do-la-si-do-si. Ma subito entra e chiude il Canto con una terza seguita dal semitono: mi-do-si. Le altre voci vi si sovrappongo continuando la recitazione del verso.

 

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Ma anche nel teatro parlato, per recitazione s’intendeva soprattutto la dizione dell’attore. Certo, nel teatro barocco, e già nel Rinascimento, la scenografia, la sontuosità dei costumi, avevano la loro parte. Ma l’interesse principale dello spettatore andava alla recitazione dell’attore, all’azione del dramma, tragedia o commedia che fosse. E perfino quando, nel melodramma settecentesco, furoreggiarono i divi del canto, soprattutto i castrati, ma anche le donne, i virtuosismi vocali non erano accolti in sé, come elemento autonomo della rappresentazione, bensì giudicati in base all’adeguatezza della situazione, o, come si diceva, all’affetto che il personaggio in quel momento dell’azione era tenuto a rappresentare. Un affetto di tenerezza, d’amore richiedeva figurazioni melodiche diverse da uno scatto d’ira, da un moto di vendetta. Ciò significa che anche il virtuosismo vocale ubbidiva a una logica drammaturgica, il pubblico fischiava l’interprete che avesse sfoggiato fioriture inadeguate alla situazione drammatica, per quanto straordinarie ed eccellenti potessero essere.

Ma nel primo secolo XVII non siamo ancora a queste esibizioni di virtuosismo vocale, o meglio il virtuosismo non si prefiggeva di mostrare le abilità strabilianti dell’interprete, bensì la sua capacità di rappresentare con la recitazione e con i gesti la situazione drammatica del momento. Il virtuosismo interpretativo, insomma, non riguardava tanto l’abilità e l’agilità delle fioriture vocali, quanto l’intelligenza di servirsi di quelle adatte alla situazione drammatica. E che il teatro fosse la preoccupazione principale di poeti, musicisti, attori, cantanti e pubblico, è indirettamente mostrato anche dall’uso linguistico in teatro. La cantante e i cantanti di melodramma, e soprattutto, nel Settecento, di opera buffa, non venivano chiamati cantanti, ma “comici”, attori di commedia. Ortensia e Deianira, le due ridicole teatranti della Locandiera di Goldoni, sono due cantanti d’opera, ma vengono chiamate “comiche”. La cosiddetta riforma di Calzabigi e di Gluck non è una riforma musicale, ma teatrale. E quando Alfieri scrive i “giudizi” delle sue tragedie, che pubblica in coda al testo teatrale, disquisisce di azione, di coerenza drammaturgica, e di effetto della recitazione, insistendo molto sulla dizione dei versi.

Ma scendiamo ora nei particolari del recitar cantando.

 

Monteverdi preferiva, da parte sua, chiamarlo parlar cantando. E questo la dice lunga sulla sua voglia di “naturalezza”, di evitare cioè l’enfasi, anche nel proporre metafore ardite, come nella Lettera amorosa. Il tono deve essere discorsivo, deve appunto discorrere. Come quando si legge – si legge, non si recita, si legge! – una poesia. Monteverdi lavorava a Mantova. Poco lontano, qualche decennio prima, un poeta, il Tasso, scriveva e teorizzava, in due bellissimi dialoghi, questa che lui chiama “sprezzatura”, vale a dire apparente semplicità, naturalezza del dettato, che, soggiunge, è più difficile da scrivere e da dire che un discorso alto, retorico, ampolloso. Esempio mirabile di questa discorsività, o nel linguaggio dell’epoca, sprezzatura, è quel capolavoro insuperato che è l’Aminta. Non a caso un testo privilegiato dai madrigalisti. Come dopo il Pastor Fido del Guarini. La preziosità delle immagini, delle metafore, riguarda il pensiero, non il discorso, che resta scorrevole, “naturale”. I versi del Tasso e del Guarini sono tra i più fluidi della poesia italiana. Bisogna aspettare Leopardi per ritrovare qualcosa di analogo, anzi di ancora più discorsivo, più fluido. L’impostazione monteverdiana non cambia quando si trasferisce a Venezia.

Veniamo ora all’intonazione di questi versi. Premettendo che una musica c’è già nel solo dirli. La lingua italiana, insieme alla lingua spagnola, e catalana, è la sola, tra le lingue neolatine, che abbia conservato la dizione chiara e univoca delle vocali. In italiano sono sette, solo sette: a, e chiusa, e aperta, i, o chiusa, o aperta, u. Le pronunce regionali non sempre conservano la distinzione tra le due e e le due o. Ma per dire bene questa poesia, vanno assimilate, introiettate, pronunciate, perché fanno parte della musica del verso, una e chiusa non è una e aperta e così pure per la o. E’ quanto è rimasto in italiano della distinzione latina di vocali lunghe e vocali brevi. Ciò riesce spesso difficile ad attori e cantanti italiani, figuriamoci a chi non possiede l’italiano come sua lingua madre. Ma questo è solo un aspetto della dizione italiana. Le vocali non sono tutto in una lingua, anche se pur troppo molte scuole di canto, soprattutto in Italia, tendono a pensarlo e, pur troppo, a imporlo. Amore, sapore, odore, colore, sono parole molto simili, ma per individuarle devo far sentire, e distintamente anche le consonanti: a-o-e, o-o-e, come si sente dire da molti cantanti non solo non fa capire ciò che stanno cantando, ma deforma anche la musica del verso, del discorso. La m e la r di amore, la s, la p e la r di sapore si devono sentire, e sentire distintamente, così come si devono sentire la d e la r di odore, la c, la l e la r di colore. Una lingua è fatta di vocali e di consonanti e le consonanti sono importanti quanto le vocali. Il fatto che la lingua italiana richieda una pronuncia distinta delle vocali non significa che si debbano trascurare le consonanti.

Infine, e qui tocchiamo il nodo della questione, quest’arte si chiama recitar cantando, parlar cantando, non recitativo (e anche qui però si dovrebbe aprire un discorso), non cantare recitando. L’incidenza, il fatto essenziale cade sul recitare, non sul cantare. E’ teatro, non musica: o meglio, è teatro che piega la musica a farsi recitazione, teatro, questo vuol dire che la musica deve farsi serva dell’orazione. Se manca la recitazione, manca infatti anche la musica. Non è bel canto, è recitazione attuata con il canto. La musica non sta nella melodia sovrapposta a un testo, ma in un testo che si fa canto, melodia, perché la melodia è già contenuta nel verso, Aristotele direbbe che nel verso la melodia è in potenza, e il canto la pone in atto. Non sembri astrusa quest’interferenza aristotelica, perché la cultura da cui nasce il recitar cantando è aristotelica, pregalileiana. E Tasso, Monteverdi proprio questo volevano dire quando dicevano che la musica c’è già nel verso. Anzi, per il Tasso, una musica c’è anche nella prosa. Se sviluppassimo il discorso si andrebbe lontano, forse a Debussy.

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Ma fermiamoci. Non senza insistere sul fatto che quando si affronta questo repertorio o si parte dalla dizione del testo o si va fuori strada. L’apparente melodia che sembra risultarne, infatti, non ha nessun senso senza la melodia implicita del testo, perché è il testo stesso a generarlo, e non l’intonazione musicale. Tutto sommato, per paradosso, ma poi non tanto, è una musica che assomiglia più allo Sprechgesang che un’aria o perfino a un recitativo del melodramma che poi ne nacque. Spero di avere dissipati qualche equivoco. I non italiani che si accostano a questo repertorio o decidono di apprendere la lingua italiana come fosse la loro lingua nativa o lascino perdere. Quanto agli italiani, la smettano di pensare non dico a Turiddu e Santuzza, ma nemmeno a Cimarosa e Paisiello, perché quello è tutto un altro mondo. L’impostazione vocale, non sembri assurdo, è un problema secondario di questo canto. Primario, invece, la corretta dizione del testo. E non pensino, perché italiani, di dirlo bene il testo, ma si decidano finalmente a far sentire, anche in italiano, tutte, nessuna esclusa, e distintamente, le consonanti del testo. E a distinguere bene l’apertura e la chiusura delle vocali che la richiedono. Il resto, vedranno, verrà da sé.

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