Musica

Miseria del pop e miseria del populismo

30 Dicembre 2015

Punto primo, mai prendere sul serio una popstar al di fuori delle canzoni. Punto secondo, mai dimenticare che la musica è soltanto una componente della merce, spesso nemmeno quella principale. Ecco le due regolette auree – soltanto apparentemente contraddittorie – per discutere di musica pop.

Questo vale ad ogni latitudine e, a maggior ragione, nel piccolo stagno dell’industria discografica italiana – che nel 2014 era ancora un settimo di quella inglese. Così, quando sentiamo un interprete di canzoni esprimersi in modo diretto su episodi specifici della cronaca politica, quando lo vediamo farsi portavoce non richiesto dell’indignazione popolare, ricordiamo sempre che costui sta semplicemente cercando di vendere la sua roba.

Il connubio tra pop e politica dei nostri anni Settanta rappresenta un fenomeno probabilmente irripetibile, se non altro perché è lo stesso universo della politica ad essersi contratto ai limiti della scomparsa. Nella stagione dell’antipolitica, rottamata la Sinistra e seppellito il Primo Maggio, la figura del cantautore impegnato ha cambiato di segno, adeguandosi pienamente al caos ideologico di questi nostri anni disgraziatissimi.

Un pezzo di industria discografica italiana ha scelto di seguire Grillo e la deriva qualunquista del Paese. Una scelta in fondo non troppo dissimile da quella dei cantautori che personalmente ho amato (e continuo ad amare). Come Dalla e De Gregori potevano contare sui cachet delle feste dell’Unità o dei festival della Gioventù, così per altri musicisti pop, ognuno col suo stile e il suo pubblico, il circo grillino rappresenta un’occasione d’oro.

Ad esempio, a fare da colonna sonora al confuso sentimento antisistema degli adolescenti non sono gli Assalti Frontali, ma naturalmente, corretto un po’ il tiro, gli scemotti dell’Hip-hop non militante. Non si tratta di un tentativo alla cieca, ma di un’operazione professionale di fine tuning – a creare prodotti come J-Ax e Fedez sono stati del resto due grandi produttori di musica d’uso, in particolare per la pubblicità, come Franco Godi e Fausto Cogliati.

Per il pubblico adulto, la strategia è più diversificata. Quest’estate, per fare del quarantennale del bellissimo Rimmel un evento davvero redditizio, i manager di Francesco De Gregori hanno spinto il cantautore romano ad accettare il rinforzino di una varia compagnia di prodotti da talent show, tra cui lo stesso Fedez. In questo caso, una semplice marchetta non politicizzata.

Altri esponenti della nostra canzonetta, in particolare quelli cresciuti commercialmente in pieno riflusso, da Piero Pelù a Fiorella Mannoia, hanno invece scelto di gettarsi nella mischia, cominciando a sentenziare sull’Italia e sul mondo, ripetendo stupidaggini complottiste, sproloquiando di signoraggio e dittatura finanziaria e insomma ripetendo a pappagallo gli strilli della canea populista.

La Mannoia, un tempo eroina delle «professoresse democratiche» (Berselli) da «tacco basso e zuppa di farro» (Abbate), coerente con la sua Come si cambia («per non morire», ma pure per vendere qualche disco in più) ha quindi smesso la maschera gentile dei suoi anni migliori per indossare quella di Guy Fawkes – soltanto metaforicamente, al contrario di Pelù, dotatosi di mosca e baffi seicenteschi.

Una forma promozionale a costo zero che diventa estremamente profittevole nel caso di piccole polemiche. In questi giorni ad esempio, il mancato accordo tra management della Mannoia e organizzatori del concerto di Capodanno a Roma è stato rivenduto dal grillame come episodio di censura governativa, con successivo rilancio tra stampa e social (#iostoconfiorella), e fantastico Aux armes, citoyens! di Gianni Barbacetto, che invita tutti a metter su un pezzo della Fiorella a Capodanno…

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L’importante, parafrasando un alieno del pop italiano che ci manca molto, Enzo Jannacci, è non esagerare, perché il ridicolo è sempre dietro l’angolo, anche in una nazione rimbecillita, capace di grande sarcasmo ma non di autoironia. E se non ci pensa il resistente Barbacetto, ci (ri)pensa la stessa Fiorella, dalla sua pagina Facebook:

«io penso che questa faccenda abbia assunto delle dimensioni esagerate. Non sopporto le strumentalizzazioni, da qualsiasi parte arrivino. Non mi piace che attraverso questa vicenda si faccia campagna elettorale con il mio nome. E inoltre, sinceramente, penso che l’Italia abbia altri problemi ben più gravi a cui dedicare tutte queste energie. Grazie per l’affetto».

Risultato ottenuto, figuraccia evitata. Un capolavoro di marketing e comunicazione. Brava Fiorella.

La foto di Fiorella Mannoia è di Elena Torre.

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