Musica
Maurizio Baglini Project 2019: Beethoven
La trascrizione di musiche da uno strumento a un altro, dalla voce allo strumento, anima la vita musicale di tutte le culture. Si può perfino dire che fu strumento di modificazione e ristrutturazione delle forme musicali. Alcune inventandole di sana pianta. Si pensi alle trascrizioni organistiche trecentesche della Messa di Machaut e alle trascrizioni rinascimentali per liuto e altri strumenti o complessi di strumenti di chansons francesi e di madrigali. Nasce anzi proprio da queste trascrizioni la consapevolezza di una diversità intrinseca della scrittura musicale per strumento. Canzoni e ricercari sono un primo tassello verso un’autonoma scrittura strumentale. E spesso capolavori non inferiori alle fonti vocali da cui derivano e dalle quali spesso divergono inventando nuovi adattamenti della linea vocale alle esigenze dello strumento. La trascrizione percorre dunque tutta la storia della musica, sia occidentale sia di altre culture. E non ha solo funzione divulgativa, come in parte per esempio la trascrizione per banda, nell’Ottocento, di brani musicali famosi, soprattutto del melodramma. La trascrizione, infatti, stimola adattamenti, trasformazioni, genera spesso nuove forme.
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E non riguarda solo la musica. In ogni arte esiste la pratica di copiare, trascrivere, variare. Si pensi ai disegni, alle copie di pitture importanti, che suppliscono la funzione della fotografia, quando ancora non c’era, ma sviluppano anche tecniche pittoriche nuove, impostazioni costruttive nuove. O in letteratura, lo stimolo di un’opera fortunata, il romanzo epistolare francese, per esempio, spinge Goethe a scrivere il Werther, e il Werther, in Italia, genera sia lo Jacopo Ortis di Foscolo, sia i Pensieri d’amore di Monti. E’ dunque snobismo sterile storcere il naso, come alcuni ancora fanno, alle trascrizioni di Liszt. Come se non esistessero, prima, le trascrizioni bellissime di Bach da Vivaldi, talora perfino superiori all’originale trascritto. Dalle trascrizioni dei Capricci di Paganini, Liszt ebbe l’idea di svilupparle in ciò che poi divennero gli studi trascendentali (titolo italiano è però fuorviante, il titolo francese originale dice Études d’exécution transcendante, studi di esecuzione trascendente). Liszt era troppo compositore, troppo curioso di sperimentare nuovi territori musicali, per arrestarsi alla pura e semplice trascrizione. E si prodiga in parafrasi e variazioni oltre che in trascrizioni vere e proprie. Fu, tra i romantici, quello che forse penetrò più di ogni altro la novità dell’impostazione compositiva di Beethoven, allievo del suo allievo Czerny. Di Beethoven Liszt ha trascritto per pianoforte tutt’e nove le sinfonie. Alla Nona ha dedicato il lavoro più lungo. E’ una trascrizione particolare, non solo perché la Nona Sinfonia beethoveniana è scritta per un organico numeroso, orchestra, coro e voci soliste, ma per l’inaudita complessità della scrittura. Liszt capisce subito che un lavoro letterale di trascrizione è impossibile. La partitura va totalmente reinventata per adattarla al pianoforte.
La scrittura di Beethoven è attentissima al mezzo adoperato, pianoforte, o altro strumento, quartetto, orchestra, voci. Ma non nel senso con cui di solito è intesa, soprattutto dagli interpreti, la specificità dello strumento. L’interprete tende, per lo più, a subordinare la musica scritta alle prestazioni dello strumento, la giudica più o meno adatta, più o meno caratteristica, a seconda degli effetti strumentali o vocali, se si tratta della voce, che possa ricavarne. Subordina insomma la scrittura musicale alle prestazioni dello strumento. E solo in tal senso giudica una musica o pianistica, o vocale, o violinistica, e così via.
Ci sono poi compositori, anche geniali, che prestano una grande attenzione a questo rapporto tra la scrittura e la sua realizzazione strumentale. Tra i sommi: Rossini e Chopin. Rossini scrive anche musiche di ardua esecuzione per le voci, ma, come prima di lui Handel (e non invece Bach), non viola mai i supposti limiti di ciò che generalmente s’intende per la natura dello strumento, in questo caso la voce. Chopin scava e sperimenta sul pianoforte la realizzazione di una scrittura musicale totalmente nuova. E crea così, sul pianoforte, con il pianoforte, per il pianoforte, un mondo musicale totalmente nuovo e d’inaudita complessità strutturale.
Non così Beethoven, e per certi aspetti nemmeno Liszt, anche se la fama fu di virtuoso del pianoforte, assai più di Chopin. Ma tale apparente indifferenza alla natura dello strumento non va intesa nel senso con cui generalmente si dice che Beethoven è insensibile alla natura dello strumento, alle sue specificità. Perché invece Beethoven lo strumento lo conosce bene, e profondamente, e sa sfidarne le possibilità assai più di quanti non osano superarne quelli che si ritengono, a torto, i suoi limiti o quella che si giudica, ugualmente a torto, la sua natura. Si dice, e si ripete spesso, per esempio, soprattutto da parte degli italiani, inguaribili patiti del bel canto, che anzi ritengono l’unica forma “naturale” di canto, che Beethoven non sa scrivere per la voce. Si dice, e si scrive: per esempio, nella sezione dedicata al teatro del DEUMM, alla voce Fidelio. Una voce dilettantesca, che irrita qualunque studioso serio di musica. Niente di più erroneo, infatti, di ciò che vi si legge, che cioè Beethoven non conoscesse la fragilità dello strumento delicato che sarebbe la voce umana. Quasi testuale: una bestemmia critica, un infondato giudizio di storia musicale.
Beethoven, infatti, non scrive contro la voce, ma nemmeno contro il pianoforte, o contro il violino. Beethoven usa la voce, il pianoforte, il violino per realizzare idee musicali pensate per la voce, il pianoforte e il violino, ma non nel senso di un’esecuzione comoda e abituale, anche nelle agilità e nei virtuosismi, che pure abbondano. Beethoven chiede allo strumento di esibire lo sforzo, la difficoltà, la novità del pensiero musicale, di far sentire che la musica pensa. La voce è spinta fino allo strillo, il pianoforte esaspera la sua natura percussiva (in certi casi sembra prefigurato perfino Bartók), il violino deve mostrare lo sforzo di mantenersi cantabile anche in registri impervi, il violoncello è spinto nei quartetti a suonare all’unisono con il violino. Il che non impedisce a Beethoven di abbandonarsi anche a stupende perorazioni liriche, di tuffarsi nel piacere di un canto dispiegato: il tema delle variazioni dell’ultimo tempo della Sonata op. 109, l’adagio del concerto per violino, la cavatina del quartetto op. 130. Canto di una bellezza che ha pochi eguali in tutta la storia della musica di Occidente.
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Da giovane guarda a Haydn e Mozart, non come a modelli stilistici, ma come a maestri d’invenzione musicale, architetti di nuove costruzioni musicali. E a chi doveva guardare, poi? Haydn e Mozart erano i suoi contemporanei più moderni, l’avanguardia di allora, e Beethoven voleva essere musicista d’avanguardia. Ma in ogni caso Haydn e Mozart erano musicisti contemporanei. Si dice e si scrive una sciocchezza quando si dice e si scrive che il giovane Beethoven “imita” Haydn e Mozart, come se fossero musicisti del suo passato e non della sua contemporaneità, come se non fossero anzi i musicisti più moderni della sua contemporaneità. E tuttavia li scavalca, o, forse, meglio, li prosegue, conduce alle estreme conseguenze principi costruttivi che già trova impiegati nelle loro opere, per esempio il continuo lavoro di elaborazione di un’idea musicale dalla partenza semplice, se non addirittura semplicissima. E la necessità di non rinunciare mai a una costruzione contrappuntistica delle parti. Nemmeno quando, apparentemente c’è una melodia sostenuta da un accompagnamento elementare di arpeggi o di accordi. L’accompagnamento, infatti, non è mai tale, ma è sempre concepito come una voce in contrappunto (questo accade anche in Chopin! e il modello di entrambi è Bach).
Liszt di questa complessità di scrittura è consapevole. Anche perché, in parte, è la complessità pure della sua musica. La trascrizione della Nona Sinfonia raccoglie dunque le fila di tutto questo intricato e fitto processo musicale. Liszt accantona l’idea di una trascrizione pedissequa, letterale, e anche per questo abbandona la prima stesura per due pianoforti e si concentra su un’unica tastiera. Ma per reinventare da capo tutta la sinfonia, per scriverla come se la musica fosse destinata al pianoforte. Nessun particolare è sacrificato. Ma tutta la sinfonia acquista una altro, e coerentissimo, aspetto. Comune alla partitura orchestrale e alla scrittura pianistica è la sfida a oltrepassare i limiti dello strumento, dell’orchestra come del pianoforte, ma insieme a valorizzarne proprio per questo le inusitate e fino allora insondate risorse.
Maurizio Baglini ha scelto questa trascrizione per inaugurare, al Teatro di Villa Torlonia, per Roma Tre Orchestra, istituzione musicale dell’Università Roma Tre, un breve festival dedicato a Beethoven, nell’ambito di una manifestazione che si chiama Maurizio Baglini Project, e quest’anno è il Maurizio Baglini Project 2019. Nel prossimo anno si celebreranno i 250 anni dalla nascita di Beethoven, Baglini anticipa i festeggiamenti. La partitura orchestrale della Nona è per il direttore d’orchestra un’impresa da far tremare le vene e i polsi. Ma non è da meno, e forse più, la trascrizione pianistica lisztiana. Per un’ora e un quarto Baglini si è confrontato con una musica non solo dalla scrittura complessissima, ma densa degli infiniti messaggi che il tempo vi ha immesso. Ogni volta che ascolto la Nona penso a quest’uomo solo, sofferente, sordo, che ha vissuto come una catastrofe irreparabile il bombardamento di Vienna da parte delle truppe francesi, proprio quei francesi da lui ammirati che avrebbero dovuto diffondere nel mondo la libertà, l’uguaglianza, la fraternità. Beethoven non dimenticò mai la sue simpatie giacobine.
Abbracciatevi, Milioni! Questo è il bacio di tutto il Mondo. Ogni uomo diventa fratello. Così scrive Schiller e così canta Beethoven. Questo canto è oggi l’Inno dell’Unione Europea. Che sembra essersene dimenticata. Libertà! Uguaglianza! Fraternità! Per Beethoven non sono ideali, ma programmi politici. Dovrebbero esserlo anche per l’Europa. Nella trascrizione pianistica mancano le parole. Ma trasudano ad ogni battuta. Baglini esaspera lo sforzo di sfidare i limiti dello strumento. I fortissimi suonano quasi sgarbati, quasi pugni sulla tastiera, i pianissimi si estenuano fino ad apparire impercepibili. Sembra che così suonasse Beethoven, esagerando ed esasperando gli estremi. Ma due aspetti risaltano, nell’interpretazione di Baglini, l’intricatissima struttura polifonica che percorre tutta la partitura, e l’irrefrenabile matrice ritmica che dà vita a tutte le idee musicali. Naturalmente, e giustamente, è un trionfo. Ma, nonostante la fatica, il sudore che cola dalla fronte, Baglini ha concesso un bis, un’altra trascrizione, di Busoni da Bach, il Corale per organo “Ich ruf’ zu dir, Herr Jesu Christ”. E tutte le tessere musicali tornavano nella loro sede primigenia. Che dire di tanta bellezza e di così profonda commozione? Sublime, come il Dio che invoca. Anche per chi non è credente.
Le giornate continuano con l’interpretazione delle sonate e delle variazioni per pianoforte e violoncello, al violoncello la sensibillisima Silvia Chiesa, e gli ultimi tre concerti per pianoforte e orchestra, il terzo, il quarto e il quinto. Con Romatreorchestra, direttoreMassimiliano Caldi, Axel Trolese al pianoforte per il Quarto Concerto, a cui è abbinata la bellissima, sconvolgente Quarta Sinfonia, Carlo Guaitoli per il Terzo Concerto, e di nuovo Baglini per il Quinto, l’Imperatore. Ma di ciò si dirà e si scriverà dopo l’ascolto.
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A Roma, dal 14 al 19 settembre
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