Musica

Maurizio Baglini, terzo cd dell’integrale della musica pianistica di Schumann

8 Febbraio 2018

Lo psichiatra tedesco Uwe Henrik Peters (ironia vuole che sia anche il nome di una casa editrice musicale) ha dedicato un intenso libro ai “tredici giorni prima del manicomio” in cui fu rinchiuso Robert Schumann1. Al quale ha fatto seguito un secondo libro, che però non è stato tradotto in italiano2: Rinchiuso in manicomio: Robert Schumann. Peters dimostra, rileggendo i documenti rimastici, che Schumann non era pazzo. Ebbe un attacco di delirium tremens, perché era un alcolista. Ma poi diventò pazzo in manicomio. Le cure, a metà Ottocento, erano terribili. La psichiatria crudele. Del resto se si pensa che fino a non troppi anni fa si praticava l’elettroshock, e qualcuno vorrebbe pure reintrodurlo, la cosa non può meravigliarci. A bagni ghiacciati seguivano immediati bagni bollenti. Schumann morì di dissenteria e di polmonite. Il manicomio si trovava in un borgo chiamato Endenich: nomina sunto consequentia rerum! Potremmo tradurlo con “terminale”. Un segno, un fato – oppure solo una coincidenza.

Ma è vero che la personalità di Schumann era comunque contraddittoria, multiforme, complessa. Oggi lo si definirebbe un temperamento schizoide. La medicina antica e poi rinascimentale parla di umori (quattro, come gli elementi: secco, umido, caldo, freddo), e la loro mescolanza, un giusto equilibrio tra di essi forma il carattere regolato. Se prevale invece la cosiddetta bile nera (μελαίνη χόλη), e cioè l’umore nero, la melanconia, presto pronunciata anche malinconia, il carattere si dimostra allora instabile, eccitabile, e spesso capace di sdoppiarsi in più temperamenti, o se cadere totalmente in uno solo dei quattro umori, sfocia nella pazzia. Ma se la mente riesce a controllare questa fluidità, questa disponibilità della mente ad assumerli tutti, allora abbiamo il genio, l’individuo eccezionale che può sperimentare in sé stesso tutti i caratteri umani. Aristotele, proprio perciò, definisce la melanconia il temperamento tipico di artisti e filosofi3. E Platone chiama pazzia la poesia.

La neurobiologia moderna sembra confermare quest’intuizione di Aristotele. Schumann è un modello perfetto di malinconia, nel senso della medicina antica e rinascimentale. Ma anche di temperamento schizoide, in senso moderno. I salti di umore nella sua musica sono frequenti, spesso rappresentati da contrasti agogici estremi. Ossessiva, però, anche si mostra una mania calcolatrice, ordinatrice, da matematico o da solutore di enigmi. Non a caso Schumann era, oltre che musicista, anche un abile giocatore di scacchi (come il poeta e drammaturgo Schiller) e la sua musica, per dirla con Baudelaire, è una foresta di simboli, di messaggi cifrati. Ciò è bene illustrato dai libri di Eric Sams4 .

Schumann svolse attività anche di critico musicale, scoprì subito il genio di Chopin e di Brahms e fu il primo a collocare Schubert tra i più grandi compositori del primo Ottocento, allo stesso livello di Beethoven. Come critico Schumann usa diversi eteronimi (come fanno anche il filosofo Kirkegaard, suo contemporaneo e, nel Novecento, lo scrittore Pessoa): i personaggi che firmano gli articoli si chiamano Eusebio, Florestano, Maestro Raro. Rappresentano ciascuno nell’ordine il lato fantastico, appassionato, razionalistico del musicista e del critico. Il Carnaval (l’accento va sull’ultima a) è una sfilata di maschere, tra le quali si riconoscono anche i ritratti di musicisti, Chopin, Paganini, di maschere vere e proprie, Colombina, Pierrot, e di donne amate, presentate sotto facili eteronimi, Chiarina, Estrella. O, più segreta, s’intravede, può darsi, anche l’ombra del compositore compagno di stanza a Lipsia, e morto giovanissimo, a 23 anni, di tisi, Ludwig Schunke. Il luogo in cui s’immagina la sfilata si chiama Asch, cenere. Fantasmagorie della morte, del nulla. Le lettere del villaggio Schumann le chiama “lettere danzanti”, A S C H la bemolle do si, ma che si può leggere anche A ES C H (in tedesco la S si dice Es), la mi bemolle do si e il suo retrogrado S C H A mi bemolle do si la , le scrive in partitura, tra Replique e Papillons, come note: quattro brevi, le chiama Sphinxes, 1. mi bemolle do si la 2. la bemolle do si 3. la mi bemolle do si, ma non vanno suonate, le legge solo il pianista, e poi come lettere, Lettres dansantes, appunto, A.S.C.H.-S.C.H.A. dopo Papillons, fanno da titolo a un valzer indicato Presto. Come una musica inudibile da cui si generano le danze della suite. L’enigma qui si fa manifesto. Altrove, come nelle musiche del cd, sta nascosto.

Una maestria sovrana della variazione permette, comunque, a Schumann di tenere sempre il capo del filo da cui si dipanano tutte le pagine della partitura. Ma in questo cd, il terzo della serie che Maurizio Baglini dedica all’interpretazione integrale delle opere pianistiche di Schumann, sono comprese, nell’ordine di esecuzione (ma non nell’ordine della copertina, e non si capisce perché mai l’ordine non sia lo stesso sulla copertina e su cd): Kinderszenen (scene infantili), Davidsbündlertänze (danze dei federati di David) e infine i sublimi Kreisleriana (i pezzi di Kreisler5, da Hoffmann).

Ogni registrazione di quest’integrale schumanniana è una sorpresa, un balzo al cuore, una folgore che ferisce la mente. Intanto, felicissima l’idea di non registrare l’esecuzione in una sala d’incisione, ma dal vivo di un concerto. In questo caso, una chiesa dell’anno Mille ai piedi dei Pirenei, Santa Maria nel villaggio occitanico di Madiran, 469 abitanti. Fin dalle prime volte che ho sentito suonare Maurizio Baglini, mi colpì la sua profonda sintonia, quasi un’immedesimazione, con la musica di Schumann.

Schumann è forse il compositore più difficile del romanticismo tedesco. Sia per interpretarlo, suonarlo che per ascoltarlo. In qualche modo è anche il primo compositore intellettuale, nel senso moderno del termine. Se non addirittura un nostro contemporaneo. La sua musica è tremendamente problematica, complessa, intrisa di dubbi formali, aggredisce l’ascoltatore con sperimentalismi visionari, ma è anche tenuta insieme da una tenace volontà di coerenza costruttiva, addirittura da un’ossessione dell’unità formale, da uno sforzo di sintesi dei linguaggi più diversi, vi si sente la nostalgia di musiche inimitabili, popolari, antiche (nostalgia che Schumann comunica a Brahms quasi per via diretta), c’è quasi uno spasimo di riduzione al minimo della cellula di partenza, che a volte consiste solo in un intervallo o un ritmo. Ma soprattutto, anche al semplice ascolto, colpisce un’onestà del porsi davanti all’atto del comporre che non ha uguali: la difficoltà, l’ostacolo, il muro non sono aggirati, ma affrontati di petto, saltati, scavalcati, con una sorta di salto mortale, una sfida all’irrealizzabile, c’è il rischio di fallire, ma perfino il fallimento, che qualche volta disturba, e genera angoscia (non nelle pagine del cd) risulta per via misteriose una diversa conquista formale; l’incompiutezza, l’abbozzo, si fanno progetto di una musica che, invece di dire, suggerisce, allude, oppure provoca, pone enigmi. In tal senso le Davidbündlertänze sono un capolavoro che fa venire le vertigini: si potrebbe pensare perfino già alle Notations di Boulez. E non sto delirando. Lo stile, certo, il mondo sonoro, è un altro, ma il pensiero che lo sperimenta, lo costruisce, è lo stesso.

Ma fa venire le vertigini anche l’interpretazione di Maurizio Baglini. Le Scene infantili e i Kreisleriana non sono da meno. Un’infanzia che per la prima volta è guardata nella sua inafferrabile segretezza, lontananza. Schunmann non scrive musica per bambini, ma di bambini, sui bambini. Come poi fa nell’Album per la gioventù, e lì sarà l’adolescente, l’imperscrutabile, malata, tenerezza dell’adolescente. Soprattutto malata, indifesa, pronta ad essere ferita. Ma torniamo alle pagine di questo cd. Sono tre quadri che sondano l’insondabile, sembrano cogliere la musica sul punto in cui il suono prende consistenza materiale. Baglini penetra questo mondo con intelligenza acutissima, con sensibilità capillare. I salti di umore, gl’improvvisi e inattesi mutamenti di agogica sono mostrati per quel che sono: un affondare impietoso nei lati più oscuri di sé stesso, al punto da poter sembrare pazzia. Ma non è pazzia. E Baglini vi si tuffa dentro, a capofitto, a rischio di rompersi l’osso del collo. E’ irruente, violento, scatenato, dici: ora perde il controllo. Invece ogni nota, ogni pausa è calcolata, vibrata con un senso preciso. Gli strumenti con cui Baglini mette in risalto questa perpetua mutevolezza espressiva sono il tocco e il fraseggio, usati non per la ricerca di bellurie timbriche ma per far risaltare la complessa costruzione contrappuntistica da una parte, e dall’altra l’imprevedibilità armonica, il toccante, lancinante, ininterrotto canto che sembra spingersi fino a un punto di perdita, dal quale si ripiega su sé stesso e svanisce.

E quando il canto affiora – ma talora esplode -, quando dalle nebbie di mondi sommersi si alza il ricordo di melodie che non sospettavamo, ma che appena udite ci sembrano familiari, la realtà sembra aprirsi un varco verso dimensioni aliene, verso mondi ignoti, a guardare il terribile che impietra. Si è invece colti da una tenerezza infinita, si trema per una dolcezza che non sembra di questo mondo. Schumann ha scontato sulla propria pelle, nel proprio corpo, nel proprio cervello, l’arditezza di guardarla, di raccontarla, di farcene partecipi. Forse una volta, guardandola, è rimasto là, non è più tornato indietro. Ma con che coraggio Baglini si spinge fino a quella soglia, a guardare anche lui l’insondato, l’indicibile, e a farcelo sentire – dirlo non è possibile – con il tocco delle sue dita. E’ uno strano ascolto quello a cui ci sottopone Baglini, quando finisce di suonare e arrivano gli applausi non si è più gli stessi di quando si è cominciato ad ascoltare. Aristotele dice che così succede allo spettatore che assiste alla rappresentazione di una tragedia. Baglini ci conduce per mano: a questo Schumann che può parlare solo a iniziati, ad ascoltatori disposti a rischiare, come la sua musica, di perdersi, di perdere sé stessi e ritrovarsi cambiati, con una conoscenza che prima non si aveva di sé stessi, con la certezza che perfino la nostra fugacità, il nostro destino di creature di un giorno – questo vuol dire “effimeri” – può toccare il sublime, essere sublime. Perché la fugacità della vita si perpetua nel canto, si trasforma in canto, e il canto la trasferisce nella sfera degli universali, come Aristotele dice della tragedia, se la vita finisce, il canto che canta la sua fine, no. Si attribuisce a Wagner l’invenzione di una melodia ininterrotta, che viene detta appunto “infinita”: no, è già qui tutta, nella musica di Schumann, pronta a trasmigrare, presto, in Brahms e, più tardi, in Mahler, in Berg. Oltre ancora, in Ligeti, Boulez, Kurtág. E dopo … siamo ancora qui, e aspettiamo. In tanto, il quarto cd di questo meraviglioso progetto.

Fiano Romano, 8 febbraio 2018

SCHUMANN

Kreisleriana, Davidsbündlertänze. Kinderszenen

Maurizio Baglini

Decca 481 6873

1 cd

1Uwe H. Peters, Roberto Schumann e i tredici giorni prima del manicomio, Milano, Spirali, 2007. Traduzione di Francesco Saba Sardi. Titolo originale: 13 Tage bis Endenich.
2Gefangen in Irrenhaus: Robert Schumann, Ana Publishers, 2010.
3Problema XXX.
4Musica e codici cifrati, Asti, Analogon, 2010; Il tema di Clara, Asti, Analogon, 20102.
5In Italia è invalso l’uso di chiamare quest’opera “la” Kreisleriana. Ma è un neutro plurale latino e dunque si deve dire “i” Kreisleriana, i pezzi, le musiche di Kreisler. Personaggio inventato da Hoffmann, che insieme a Jean Paul, è lo scrittore preferito di Schumann. Cfr. Antonio Rostagno, Kreisleriana di Robert Schumann, L’Epos, 2007.

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