Musica

«Mai mollare!» Le molte vite e le molte storie di «Bella ciao»

25 Novembre 2019

“Bella Ciao” è tornata ad essere cantata nelle piazze. Immediatamente quelli che non l’hanno mai sopportata (ma anche quelli che un tempo la cantavano entusiasti e oggi sono risorti a nuova vita) ne hanno dedotto che il comunismo sia di nuovo tra noi sotto le mentite spoglie dei nuovi protagonisti o di “nostalgici”: siano essi le sardine o la Milano democratica che l’11 novembre 2019 si è trovata in Via Ferrante Aporti, nel piazzale antistante il Memoriale della Shoah (per tutti più semplicemente “Binario 21”).

Il meccanismo automatico tra oggetto e identità è uno dei segni di chi invece di farsi domande è capace solo di darsi delle risposte.

Come la parola shock. Per tutti è automatico che si congiunga con l’aggettivo psichico. Peccato che la parola shock esistesse molto prima della psicoanalisi e voglia dire molte altre cose e soprattutto alluda a molti altri percorsi.

Dunque, per molti “Bella Ciao” è un canto comunista e come tale è identitario, Siccome oggi la parola comunista significa totalitario, è automatico ritenere che chi canta “Bella Ciao” abbia in mente solo un mondo popolato di GULag.

Tuttavia “Bella Ciao” ha una storia e anche un uso molto trasversale che non si ferma alla Resistenza italiana, come ha raccontato l’etnomusicologo Cesare Bermani.

Ricordarlo forse è un utile esercizio per proporre di usare la testa per pensare, anziché limitarsi a scuoterla (forse anche è un modo per avere un approccio meno schematico allo studio della storia)

La storia di “Bella Ciao”  ha un percorso spazio-temporale non privo di lati oscuri e se l’asse portante è l’appennino padano nel rovinoso epilogo dell’ultima guerra mondiale, echi della melodia circolavano già da molto prima: tra antiche romanze cantate nelle aie, motivi yiddish sfrigolati dai violini di migranti e canti delle mondine nostrane. L’approdo più noto è quello della Resistenza partigiana, ma la storia passa anche per le trincee della Prima guerra mondiale e la Parigi di Montand, in un’incessante cavalcata che risuona, oggi, anche nelle piazze di Hong Kong, Istanbul e New York.

Si potrebbe molto discutere del suo testo (un testo sostanzialmente triste) eppure al di là del suo contenuto è la condizione interiore, lo stato d’animo di chi si trova a cantarla che è importante e che alla fine si sovrappone e spesso sopravanza il testo stesso.

“Bella ciao” l’hanno cantata in molti, spesso anche di realtà politiche molto lontane tra loro. “Bella ciao” fu cantata nel 1974 al Congresso nazionale della Democrazia cristiana, una notizia che forse detta oggi molti direbbero che è un fake (invece è accaduto, per davvero); intorno al 1964 la cantavano gli scout  cattolici in gita (assieme a La macchina del capo ha un buco nella gomma).

Ma soprattutto è tornata ad essere cantata dopo la fine del «secolo breve» da soggetti e da attori politici che con la storia del comunismo o con la storia del conflitto tra fascismo e antifascismo non hanno molto a che spartire, mentre invece hanno molto a che spartire con le nuove forme di ingiustizia, con la sofferenza, con il sopruso subito, con il dolore o con l’offesa.

Canzone che ha avuto molte traduzioni, soprattutto nelle lingue oppresse: in catalano, in curdo, e anche in sinto piemontese (una versione che non contiene la parola libertà perché in quella lingua non c’è il concetto, spiega Carlo Pestelli).

“Bella ciao”, la canzone che nella memoria pubblica rappresenta la Resistenza è cantata in tutto il mondo, ma si è imposta lentamente. A lungo, la canzone che rappresentava la Resistenza è stata Fischia il vento, canzone che non ha retto con la lenta crisi del mito dell’Unione Sovietica.

“Bella ciao” diventa popolare solo a partire dagli anni ’60 quando l’etnomusicologo Roberto Leydi, appassionato di canti popolari, la inserisce in uno spettacolo di canzoni del lavoro che diventa un caso al Festival dei due mondi di Spoleto.

Da quel momento “Bella ciao” entra nel repertorio dei movimenti collettivi e nei circuiti commerciali, come ricorda lo storico Stefano Pivato. Attraversa il ’68, scandisce le molte manifestazioni degli anni ’70, ha un momento di flessione negli anni ’80, risorge a Milano, il 25 aprile 1994. Diventa il simbolo della contro storia e dà il titolo al docufilm realizzato da Marco Giusti, Roberto Torelli e Carlo Freccero per conto della RAI sui fatti del G8 ma mai trasmesso (chissà che prossimamente non si riesca a vederlo, sempre che qualcuno non si vergogni di averlo fatto).

Osserva giustamente Pestelli che “Bella ciao” è una canzone d’amore e di tristezza (il senso della storia che narra non è forse fondato sul lutto?), ma tutti la cantano come una sfida, come un atto liberatorio, tant’è che a lungo è stata interdetta dai palchi ufficiali e anche molti uomini politici democratici la ascoltano con fastidio.

Non è l’unica contraddizione apparente di un testo la cui storia è peraltro molto controversa.

Molti dicono di averla sentita nei giorni della Resistenza ma nessuno sa trovare un luogo in cui nasce (In Emilia dicono alcuni, altri vicino a Imperia, altri ancora in Molise). E anche le parole tradiscono una storia lunga le cui tracce portano a Fior di tomba, testo presente alla raccolta dei Canti popolari del Piemonte realizzata da Costantino Nigra nel 1888.

Non solo. Tracce di “Bella ciao”, scrive Pestelli, si trovano nelle trincee della prima guerra mondiale, nei canti delle mondine, nel Veneto. Quei versi hanno molti luoghi e nessun luogo.

Alla fine nella memoria pubblica rimane la funzione di esprimere l’omaggio nel momento del congedo. La comunicazione che si è feriti, ma non vinti; che la partita non è chiusa e che nessuno dimentica.  È la condizione interiore che trasmettono Marlene Kunz quando ne offrono una versione rock.

Non sono gli unici.

L’11 gennaio 2015 l’attore comico Christophe Alévêque partecipa al Municipio di Montreuil (periferia est di Parigi) ai funerali di Bernard Verlhac, più noto come Tignous, uno dei giornalisti di “Charlie Hebdo”, ucciso dai fondamentalisti islamici quattro giorni prima, il 7 gennaio 2015.

Tutti sono molto composti in quello sala.

Christophe Alévêque attacca a parlare e dice con uno stile e un piglio che non sarebbe dispiaciuto a Tignous:

«Aujourd’hui nous avons un genou à terre. Mais l’essentiel c’est de ne pas avoir les deux. On ne sait jamais on pourrait se mettre à prier».

E aggiunge “Allora cantiamo”.

Perciò attacca a cantare sommessamente e poi sempre più freneticamente mentre il pubblico prima sorpreso si mette a battere il ritmo con le mani. La canzone è “Bella ciao”.

Quelli che oggi hanno da ridire devono essersi turati il naso molto forte in quei giorni.

Di nuovo “Bella ciao” torna a essere intonata ina ltri lughi: per esempio  a Genova, questa volta ai funerali di Don Gallo (è  il 25 maggio 2013); oppure a Maraghna, in Algeria, quando Ferrat Mehenni la canta in cabilo ai funerali de figlio contro il potere politico e contro i fondamentalisti islamici. È il giugno 2004.

Ogni volta non si tratta solo rendere omaggio a una storia che non va dimenticata.

Intonare quella musica, indipendentemente dalle parole, vuol dire che si riparte.

È quello che fa Goran Bregovic in concerto con la sua Weddings & Funerals Band quando intona in un ritmo assolutamente coinvolgente “Bella ciao”. In quel momento non c’è la nostalgia. C’è la liberazione, la sensazione che il riscatto è possibile e che il destino non è subire. Cosa ci sia di disprezzabile  in tutto questo,  è un mistero.

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