Musica
Lou, Mick e David e la presa di distanza da Andy Warhol
Ci sono dei dischi, nella storia dell’umanità, che rasentano la perfezione e, con il passare degli anni, continuano ad acquistare valore, profondità, ed a concentrare le nostre passioni.
Uno di questi rarissimi miracoli è “Transformer” di Lou Reed, che a novembre di quest’anno compirà 49 anni dalla sua pubblicazione. Lou era finito, nessuno voleva più saperne di lui e delle sue storie di droga, l’intera combriccola dei Velvet Underground era implosa, come tutte le balle grazie alle quali Andy Warhol ha rovinato un’intera generazione di finti edonisti, ma brillanti ed autodistruttivi artisti. Lou era senza soldi, malato, ed era stato costretto a tornare a vivere a casa dei genitori. Il suo primo disco solista era stato un disastro, le case discografiche avevano deciso di dimenticarsi di lui.
Cose che accadono, se credi di essere un artista e sei invece solo un prodotto di consumo. La band di Lou Reed, infatti, a prescindere dal suo innegabile straordinario valore, era il fulcro dell’operazione commerciale della Factory di Warhol, tant’è vero che, anni dopo, Lou Reed diceva: “Ho scritto pezzi come Heroin per esorcizzare l’oscurità, l’elemento autodistruttivo dentro di me, e speravo che la gente li interpretasse allo stesso modo. Ma quando ho visto come reagivano, è stato irritante: la gente veniva da me dicendo che si faceva iniezioni ascoltando Heroin, cose del genere. Per un po’ ho pensato che alcune delle mie canzoni abbiano contribuito a rendere popolari queste dipendenze e a portare i ragazzi a ciò che sono oggi. Ora non lo penso più. È una cosa troppo brutta da pensare”.
All’inizio del 1972 David Bowie e Mick Ronson, che avevano suonato a Long Island, erano andati a trovare Lou a casa, e lui aveva fatto loro sentire un paio di canzoni non ancora terminate. Mick, come al solito, ha iniziato a strimpellarci sopra, David ha improvvisato un po’ di sax, ma dopo due ore i tre ragazzi avevano deciso: facciamo un disco insieme, lo facciamo alla RCA, sotto la garanzia di David Bowie e degli Spiders from Mars, e lo facciamo ai Trident Studios, che ci fanno lavorare a buffo. Lou lavorava come impiegato presso lo studio di commercialista del padre, che lo aveva costretto a separarsi dalla fidanzata di sempre Shelley Albin, costringendolo alla disintossicazione – e quindi, nelle canzoni, c’era rabbia, delusione, sgomento, crudo realismo, la tragedia di una generazione di newyorkesi distrutti dalle droghe – ma sopra tutto, come un’aquila reale, un alone di poesia, di sopravvivenza, di bellezza nella bruttezza.
David e Mick portarono in studio la loro band (con Trevor Bolder, prima che fondasse gli Uriah Heep), oltre a giganti del jazz come Herbie Flowers e Ronnie Ross, il bassista dei Beatles (Klaus Voorman) ed altri eroi di quell’epoca. Insieme, convinsero Lou a scrivere qualcosa che gli permettesse di elaborare il lutto per gli anni della Factory: “Walk on the wild side”, che è una feroce vendetta contro gli epigoni del cerchio magico di Warhol – una strofa per ciascuno: le icone transgender Holly Woodlawn e Candy Darling, l’attore Little Joe Dallessandro (“The Cotton Club”), l’altro attore Joe “Fata di prugne zuccherate” Campbell e la drag queen Jackie Curtis. La mia canzone preferita, però, è quella sulla fine dell’amore con Shelley, “A perfect day”, che è tuttora intensa, commovente, desolata nel ricordo di una felicità lontana ed irripetibile, fatta di piccole cose, e non di sfoggi eclatanti, come sosteneva Warhol. Da allora in poi, per loro Warhol non era più un santone, ma un vecchio amico malato e brontolone con idee brillanti ma strampalate. Erano diventati adulti.
“Transformer”, quindi, non è solo il disco con cui Lou Reed è tornato ad essere una stella del firmamento musicale, ma è la resa dei conti di quei meravigliosi indimenticabili ragazzi che arrivarono a 20 anni a metà degli anni 60, che erano diventati immensi troppo presto e troppo fragili, e si fecero ingannare dai vecchi santoni e venditori di merda. Durante la registrazione del disco, David ha compiuto 25 anni, Mick 26 e Lou 30. Dei ragazzini, eppure erano all’apice di un successo artistico e commerciale che ha cambiato per sempre la storia culturale del mondo. Li guardo con affetto dall’alto (o basso) dei miei 62 anni, e ne ho una nostalgia che non posso spiegare. Ma la vita è così. I giorni perfetti e le canzoni perfette restano, ma sono ricordi di qualcosa di tragicamente irripetibile.
La foto di apertura è stata scattata da David Bowie durante una pausa delle registrazioni. In piedi c’è Angie Bowie, accanto alla nuova fidanzata di Lou, Bettye Kronstad. Sul divano, da sinistra a destra: Mick Ronson, Trevor Bolder e Lou Reed
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