Musica

L’ora è fuggita

17 Maggio 2020

Un’intervista di Giuseppe Montemagno a Francesco Giambrone, apparsa ieri sul magazine online Connessi all’opera, chiarisce lucidamente la situazione dei teatri e degli enti sinfonici e concertistici per il futuro. Ossia che, nonostante tutta la buona volontà e la comprensione, il rispetto sacrosanto della sicurezza, e tutto il corollario che si porta dietro la gestione della musica dal vivo, il futuro sarà molto più che difficile. Forse impossibile. L’ipocrisia dal sapore ecclesiastico dell’ “Andrà tutto bene” viene spogliata senza pietà. Giambrone è l’illuminato sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo, un medico prestato alla lirica, di cui s’intende perfettamente e con rara competenza, nonché presidente dell’Associazione Nazionale Fondazioni Lirico-sinfoniche. E da medico sa perfettamente cosa vuol dire una pandemia. E sa benissimo che l’opera lirica è incompatibile colle misure di sicurezza.

Le sue parole, cariche di affetto per la musica, l’opera, gli artisti e il pubblico e per l’organizzazione di una fruizione della musica e dello spettacolo a cui la sua visione ha contribuito in maniera decisiva nelle sue gestioni passate, sono purtroppo anche cariche di una consapevolezza che il tempo è cambiato senza rimedio. La prima riflessione è che il teatro attualmente è un luogo bellissimo, un monumento elegante ma vuoto. Svuotato di senso, se non si può utilizzare. Il teatro è sempre stato, fin dalla sua invenzione nell’antica Grecia, il luogo degli incontri, della socialità, e anche della riflessione del pubblico sulle proposte dei drammaturghi, che coglievano la realtà e la trasfiguravano in forma poetica attraverso i miti e le storie, fissandone gli archetipi e tramandandoli tali e quali fino ai giorni nostri. Per secoli, dopo la caduta dell’Impero Romano i teatri e gli anfiteatri furono abbandonati. Molti addirittura servirono come cave di pietra per costruire nuovi edifici, con conci già pronti da riassemblare. Un teatro vuoto, dopo che per anni si è cercato di riportare il pubblico verso l’opera e la musica classica in generale, con successo, adesso è l’immagine desolante delle conseguenze di una pandemia della quale non si riescono ancora a intravedere davvero fino in fondo.

Pochissime persone si sono espresse, soprattutto pubblicamente, su codeste conseguenze. Forse perché c’è una speranza che ciò che viene considerata la normalità, dopo due mesi di vacanza forzata, ritorni come prima. Forse perché da parte di molti non c’è una consapevolezza profonda di ciò che significa questa pandemia (e probabilmente altri futuri morbi). Forse, anche, perché chi ne è cosciente è talmente spaventato e annientato dalla crudezza delle conseguenze e dal totale cambiamento di punti di vista e di scale di valori che una pandemia contempla.

L’atteggiamento delle persone di fronte a quest’incertezza è vario, naturalmente. Ci sono gli inguaribili ottimisti, quelli che dicono che in fondo sì, certo, qualcosa cambierà, ma che poi la tenacia del popolo italiano saprà superare qualsiasi difficoltà. Ci sono quelli che si crogiolano pensando che sia la punizione divina, aspettando le locuste, l’oscurità, l’ecatombe dei primogeniti, la pioggia di rane e ogni altra sorta di bizzarrie bibliche. Poi notiamo anche chi ha bisogno di dare la colpa dell’epidemia a questo o a quello, non sono i pipistrelli è un virus artificiale, e lo hanno prodotto i cinesi (che mangiano pure i topi vivi), gli americani, i russi, gli alieni e così trovano un nemico visibile per consolarsi di non poter individuare quello invisibile e letale. Poi c’è chi giustamente intuisce il pericolo di una disumanizzazione per i contatti limitati, niente baci, abbracci, strette di mano; ma un’epidemia è un’epidemia, non ci si può scherzare. E questi ultimi vedono la disumanizzazione come un disegno oscuro delle poche decine degli uomini più ricchi del mondo per impadronirsi del globo. Un’idea romantica ma buona per 007. Alla fine troviamo anche chi suppone che il mondo non sarà più lo stesso ma resta sempre nel generico, perché la realtà è troppo spaventosa da accettare e quindi non si azzarda a fare previsioni nere come la pece, che magari, al contrario, potrebbero essere utili per capire meglio come l’uomo dovrà adattarsi alla nuova realtà.

C’è chi afferma che l’umanità ha fatto fronte alle epidemie del passato e, nonostante le terribili pestilenze che dimezzarono la popolazione dell’Europa in vari periodi, saprà far fronte anche a quest’ultima. Ma ciò che non viene spiegato è che se nel passato le epidemie, così come le catastrofi naturali, ad esempio i grandi cataclismi o le eruzioni vulcaniche agivano in un mondo molto meno popoloso, dove la maggior parte delle persone non aveva accesso alla ricchezza e sottostava alla superstizione e dove scienza e religione spesso coincidevano, oggi, periodo in cui tutti o quasi hanno accesso a quasi tutto, come l’informazione, per esempio, e si sono liberati, almeno in una parte di mondo, di una visione religiosa ingombrante e dominante, le cose stanno diversamente. Anche perché la pandemia riguarda tutto il mondo, ma proprio tutto.

Le cose stanno diversamente perché il consumo incontrollabile ha invaso la vita delle società. Il consumo è alla base di tutto. Si produce per consumare, perché sette miliardi di potenziali consumatori trovino il loro oggetto da consumare. E anche lo spettacolo è consumo.

La stoltezza di questa mentalità, per cui in paesi dove il denaro è tutto – specialmente quelli protestanti, come spiega benissimo Max Weber in L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – e un virus viene considerato uno spiacevole contrattempo che molesta gli affari, porta a preferire il raggiungimento dell’immunità di gregge con blande misure di sicurezza per fare in modo che la vita commerciale continui. È accaduto nel Regno Unito, negli U.S.A., in Svezia, in Olanda. A Londra e New York abbiamo visto con quali risultati. Nell’oleografica Olanda, spesso descritta come patria di tutte le democrazie e di libertà, dalle canne al sesso, l’8 marzo 2020 il Concertgebouw, una delle principali aziende musicali di Amsterdam, ha deciso che si dovesse rappresentare la Johannes-Passion di Bach, perché si fa così e basta. Nonostante il virus avesse iniziato a manifestarsi già da febbraio e dal 3 marzo, sempre in Olanda, si “consigliasse” una distanza di sicurezza di un metro e mezzo. Distanza di sicurezza che in un coro e in un’orchestra non si può fisicamente rispettare. Risultato: un corista positivo e inconsapevole ha contagiato centodue tra orchestrali e coristi provocando la morte di quattro persone. La “civilissima” Olanda aveva optato per il raggiungimento dell’immunità di gregge. In seguito, visto che codesto virus era un po’ fortino e virulento, si preferì tornare sui propri passi e indicare il confinamento come pratica più adeguata. Ma ormai il danno era stato fatto, come a Londra e come a New York. Criminali.

Ovviamente la musica dal vivo, soprattutto l’opera lirica e la musica sinfonica, pone questi problemi e Giambrone li elenca senza nasconderli. E dice chiaramente che l’Opéra di Parigi e il Metropolitan di New York resteranno chiusi fino a gennaio, proprio perché è impossibile riaprire in condizioni di sicurezza come quelle descritte dai virologi – e adottate da vari governi – che, naturalmente, vedono la realtà dal punto di vista medico, per prioritariamente salvaguardare la salute.

Morirà il teatro lirico in Italia? Già non se la passava benissimo tra teatri e festival sempre più in difficoltà, specialmente dopo la crisi del primo decennio del secolo. Figuriamoci poi le realtà minuscole dei piccoli teatri di provincia, spesso unico faro culturale di un territorio: se in un teatro di 200 posti ne tagli 120 o più per far disporre gli spettatori secondo i criteri di sicurezza hai finito di campare perché le spese di mantenimento di un teatro, per quanto piccolo, sono elevatissime e se con la vendita di 200 biglietti puoi riuscire a coprirne una parte con quella di 80 non riuscirai mai e poi mai. Fine del teatro.

Resta lo spettacolo via web. Ma si sa che è tutt’altra cosa. Già si è visto ieri sera con il surrogato dell’Eurovision, una specie di macabra rievocazione di fantasmi in luoghi disabitati, una sinopia d’una kermesse musicale coinvolgente che sembrava relegata al passato remoto, mentre i due commentatori parlavano perfino sopra i frammenti di canzoni, quasi volessero alleggerire lo squallore.

Ora, può darsi che non siano classificate dai più come priorità, considerando la situazione della sanità e dell’istruzione, ma la cultura, l’arte e la musica, per il nostro continente sono risorse fondamentali, proprio perché nel mondo nessun posto come l’Europa ha una tale concentrazione di gioielli. E questi gioielli, oltre al loro valore intrinseco, muovono anche un’enormità di lavoro che si svolge tutt’intorno, legato al turismo interno ed esterno. Questo lavoro riguarda sia i lavoratori dell’arte e dello spettacolo, che già sono molti e comprendono attori, musicisti, attrezzisti, elettricisti, macchinisti, sarti, tecnici, amministrativi, pulitori, eccetera, sia gli alberghi, le locande, i b&b che ospitano i visitatori, i ristoranti che li rifocillano, le agenzie di viaggio e quindi i trasporti, terrestri, aerei e marittimi, i commerci delle città e così via in una catena senza fine. Il ciclo del lavoro non comprende solo i manovali, gli agricoltori e gli operai dell’industria. Perdendosi, il buco enorme che lascerà sarà una voragine di disoccupati oltre, naturalmente, a una voragine abissale che minerà la particolarità culturale del nostro continente, cancellando per lungo tempo sapienze che hanno resistito perfino alle guerre mondiali.

Nell’intervista a Giambrone questo problema viene messo in evidenza, peraltro con coscienza di medico e di organizzatore tra i migliori che ci siano in Italia. Giustamente, da persona che conosce ogni dettaglio, Giambrone si pone anche il problema dei costi dei biglietti casomai si dovesse tornare a una situazione gestibile. Chi potrà permetterselo in un paese estremamente impoverito?

Come viene da chiedersi chi comprerà tutte quelle auto fiammanti e velocissime che invadono sempre gli intervalli della réclame in tv. Con quali soldi la gente potrà mai comprarle? Nei governi regionali, nazionali ed europei i funzionari che dovrebbero occuparsi della “ricostruzione” saranno mai coscienti di tutto questo? Basta riaprire solo i musei? Qual è la soluzione? Sarà in grado una classe politica nazionale e internazionale di salvaguardare quest’immenso patrimonio e custodirlo per riassemblarlo al momento giusto?

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