Musica

Lonquich Schumann Burgmüller: l’intimità che parla

10 Marzo 2020

Alexander Lonquich, nato nel 1960, vinse nel 1976 il concorso pianistico di Terni “Alessandro Casagrande”. Aveva dunque 16 anni. Interpretò, tra altre pagine, nel concerto che diede dopo la premiazione, la sonata di Alban Berg. Era una premonizione. Perché Berg è inspiegabile senza Schumann, anzi tutta la musica tedesca – e una parte di quella italiana, per esempio Martucci – sviluppano, evolvono idee già presenti nella musica di Schumann. Perfino quella che sembrò un fallimento, la Genoveva – ma che Harnoncourt giudicava, chi sa se esagerando, l’opera più bella dell’Ottocento – nel suo rigore liederistico – in parte come Schubert – è una proposta di rapporto tra parola e intonazione della parola che possiamo riconoscere in molte altre opere composte dopo, butto qualche titolo a caso: Samson et Dalila, Esclarmonde, Wozzeck, e in fondo lo stesso, e unico, Pelléas et Mélisande. Modello ancora più prosciugato, le Scene dal Faust o il Pellegrinaggio della rosa.

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Ascoltai, anni fa, una conversazione di Lonquich sui Kreisleriana all’Università la Sapienza, era stato invitato da Antonio Rostagno, di cui avevo appena letto il prezioso saggio sulla pagina schumanniana. La familiarità di Lonquich non solo con la musica di Schumann, ma con la cultura, l’animo, da cui nasce la musica di Schumann, mi apparve ancora più profonda di come avessi potuto intuire dall’ascolto delle sue interpretazioni schumanniane. L’ostacolo maggiore che un interprete può vedersi innalzare davanti a sé affrontando la musica di Schumann – e non solo il pianista, o il violoncellista, il violinista, ma anche il cantante, il direttore d’orchestra – è la grande mutevolezza della scrittura che si trova a dover decifrare (alla lettera, la musica di Schumann ha molto a che vedere con la decodificazione di codici segreti): si potrebbe pensare a una costruzione basata sull’improvvisazione, che muta continuamente i canoni formali e i caratteri espressivi, ma sarebbe un pensiero limitante, perché l’improvvisazione schumanniana non ha nulla di ciò che possiamo trovare in un Mozart, in un Beethoven, e ancor più in uno Chopin – il suo adorato Chopin – e in un Liszt, ma unisce ciò che apparentemente non sembra combinabile, è cioè una sorta di ossimoro musicale, un calcolo capillare della nota unito alla spontaneità dell’improvvisazione, accosta passi di umore contrastante, il cui contrasto però è previsto nell’organizzazione della forma. Insomma, banalizzando, istinto quasi selvaggio e razionalità estrema, al limite del razionalismo, dell’intellettualismo, convivono nella stessa pagina.

Lo psicologo, per non dire lo psichiatra – uno di essi, Uwe Henrik Peters (nome, labirinti semiologici, anche di una casa editrice musicale), ha scritto due saggi sulla pazzia di Schumann, negandola, Robert Schumann – 13 Tage bis Endenich, Köln, 2009 e Gefangen im Irrenhaus – Robert Schumann, Köln 2011, il primo tradotto anche in italiano da Spirali con il titolo Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio, traduzione di Francesco Saba Sardi – ma anche solo lo studioso del comportamento umano, potrebbe insinuare un disturbo psicotico. E’ tuttavia molto rischioso azzardare ipotesi cliniche, in questi casi. Ogni artista – come sa benissimo l’antico redattore del Problema XXX arrivatoci con l’attribuzione ad Aristotele – è tale proprio perché disponibile a immaginare, e perfino a vivere, situazioni diverse, anche contrastanti, a figurarsi nelle persone più eterogenee, e intuirne, viverne i pensieri, i drammi, i sentimenti. La letteratura, da sempre, vive di questo. E allora che cosa hanno di anomalo Florestano, Eusebio, Maestro Raro, gli eteronimi di Schumann, rispetto a quelli del contemporaneo Kirkegaard o del novecentesco Pessoa? Ecco, questi eteronimi dobbiamo immaginarli convivere anche nella musica di Schumann. Non a caso i suoi scrittori preferiti erano Hoffmann (e dalle suggestioni di un suo racconto nascono i Kreisleriana) e Jean-Paul.

Ecco dunque che la pubblicazione di un’incisione schumanniana di Lonquich non poteva non attirarmi. Per di più, in quest’incisione, il Concerto in la minore per pianoforte di Schumann è accostato alla Seconda Sinfonia, incompiuta, di Norbert Burgmüller, coetaneo di Schumann, morto a 26 anni, annegando nella piscina di un bagno termale, per un improvviso attacco epilettico, sembra. Schumann ne restò sconvolto, come, qualche anno prima, per la morte di Schubert. Orchestrò lo scherzo della sinfonia, compiuto, ma lasciò stare l’abbozzo del finale, appena 58 battute. E’ una strana, inquietante partitura. Il tema dell’attacco prefigura di Schumann, come osserva nelle note all’incisione lo stesso Lonquich, l’adagio del Concerto per violino e il l’ultima sua composizione, quel tema che dice ispiratogli da uno spirito, forse Schubert, e sul quale costruisce inquiete e cupe variazioni. Brahms riprenderà quel tema, anche lui, per una serie, non meno inquieta, di variazioni. Ma ciò che maggiormente colpisce, e affascina, di questa sinfonia è l’atmosfera sfuggente, l’imprecisione dei profili tematici, una vaghezza insieme sognante e visionaria. E’ vero che il tema affidato all’oboe, nell’Andante, può evocare un tema affine a quello dell’Andante con moto dell’ultima sinfonia di Schubert, ma Burgmüller non poteva conoscerla.

Norbert Burgmüller

Che cosa può avere attratto Schumann di questa musica, tanto da spingerlo a strumentarne lo scherzo? Probabilmente proprio questa quasi sognante indeterminatezza dei profili tematici e la leggerezza tutta contrappuntistica della strumentazione. Oltre, naturalmente, al fascino che doveva suscitare anche la figura del giovane musicista. Poteva in qualche modo ricordargli Schubert e più ancora l’altro sventurato musicista morto giovanissimo, Louis Schunke, con il quale Schumann aveva addirittura a Lipsia condiviso la stessa camera per un anno, e dalla cui amicizia era nata l’idea del Davidsbund. Lonquich in questo mondo fantastico d’immagini sonore fluttuanti, mobili e trascoloranti le une nelle altre ci entra con delicatezza, e ce ne restituisce il fascino. Strano che di un compositore così notevole non facciano cenno né Dahlhaus né Rosen nei libri dedicati all’Ottocento e al Romanticismo.

Ma veniamo al concerto di Schumann. Nonostante esso sia stato composto in momenti diversi e non sia stato concepito inizialmente come concerto, è in realtà di una omogeneità, di una compattezza ammirevoli. Si è giustamente osservato che il primo tempo, nato come brano autonomo, una sorta di fantasia per pianoforte e orchestra, sia fondamentalmente monotematico. Ma il fatto è che la fantasia musicale di Schumann è tutta tendenzialmente monotematica, elaborazione di una cellula originaria, spesso minima – le sfingi del Carnaval, solo tre note – e che la grande varietà di piani espressivi nasce da un’arte consumatissima e raffinatissima della variazione, in ciò erede della lezione beethoveniana. Ma c’è in più il senso parlante, comunicativo, che vuole avere questa musica. Un po’, cultura del tempo, si pensi ai Lieder ohne Worthe, canti senza parole, di Mendelssohn, ma molto, anche, afflato significante che Schumann intende conferire alla musica. La predilezione per i brevi motivi cantabili, per l’impasto cameristico dei timbri, per il labirinto contrappuntistico delle voci – perfino delle voci scritte che non si suonano – nasce qui. E’ il lato più visionario della musica di Schumann. Difficile non pensare a Mahler e perfino a Šostakovič. Ma soprattutto a Berg.

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E torniamo da dove siamo partiti. Si ascoltino le battute 156 – 181 del primo tempo, Allegro affettuoso (già schumanniana l’indicazione agogica), il dialogo tra pianoforte e clarinetto, variate poi nelle battute 319 e seguenti, e più avanti, le battute 267 – 293, il delicatissimo fraseggiare del pianoforte solo e poi sulle quintine del pianoforte l’impasto morbido degli archi, sonata, quartetto, quintetto? No, concerto per pianoforte e orchestra, ma l’orchestra è un gruppo da camera. La mirabile cadenza, battute 402-457. da sé un fantasioso, commovente improvviso, riprende le fila del discorso tematico fin qui proposto (probabile che da qui Schumann abbia poi tratto l’idea di conformare al primo tempo gli altri due tempi del concerto), Lonquich la conduce con senso assoluto d’intimità, è una melodia che si sussurra a sé stessi in segreto, senza nessun’altri che l’ascolti se non chi la suona, abolite le stanghette divisorie delle battute, il fraseggiare scorre fluido senza interruzione, come un tentare i tasti, saggiarli, per sentire che cosa ne sortisca, finché il trillo riconduce al tema, all’orchestra, alla conclusione.

L’Intermezzo nasce da una figura del tema del primo tempo, che si presenta alla seconda battuta del tema. Il dialogo con il clarinetto del primo tempo è qui, poco dopo, rievocato da un dialogo con il violoncello. Come a rassicurarci che quell’afflato così tenero, così coinvolgente, dura ancora, non è mai cessato. E non cessa nemmeno nell’Allegro vivace finale, perché anche il suo tema d’attacco riprende il tema del primo tempo, ma nella figura che si era ascoltata nell’Intermezzo. E così alla fine ci si accorge che non è solo il primo tempo ad essere costruito monotematicamente, ma l’intero concerto. Il che non genera nessuna monotonia o uniformità, perché, appunto, consumatissima è l’arte della variazione, ma imprime a tutta l’opera una coerenza, un’unità costruttiva che si risolve nella comunicazione di un respiro musicale ininterrotto, continuo, che s’avventura in alti e bassi, in fughe verso altezze vertiginose e precipizi nell’intimità più gelosa, e si ha come risultato forse il più bel concerto per pianoforte e orchestra di tutto il romanticismo.

Con in più questo rischio, questa vena visionaria, che lo lancia nelle profondità ancora insondate del futuro. E’ questa intimità, unita a questa consapevolezza di un mondo ossessivamente omogeneo, che Loquich ci restituisce. Come? Con una lettura lucidissima del contrappunto sia pianistico sia del pianoforte che si combina con l’orchestra, attraverso un’estrema varietà del tocco e una non minore varietà di respiri strumentali in orchestra, e soprattutto conquistando una libertà di scansione delle frasi che fa parere naturale, dolce, fluido anche l’artificio, anche il virtuosismo pianistico e l’espressione degli strumenti dell’orchestra. Tutto, insomma, sotto il segno della delicatezza e della leggerezza. Il che non vuol dire che i passi energici, di piglio volitivo, siano trascurati, ma sono inseriti in questa mirabile scorrevolezza di tutto l’andamento musicale. Ma sia i momenti delicati sia quelli più energici sono accomunati dal segno di un’espressione per così dire parlante della musica: che è quanto di più schumanniano si possa immaginare.

Il Colibrì Ensemble è un docile, duttile strumento che asseconda con entusiasmo la lettura così intima che di questa musica ci offre Alexander Lonquich.

Alexander Loquich, Schumann-Burgmüller

Colibri Ensemble

Odradek ODRCD355

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