Musica

Lo “stile tardo”

In un concerto Filippo Gorini esegue le ultime sonate di Beethoven e di Schubert, esempi mirabili di ciò che Adorno definì lo stile tardo. Introdotte dagli ultimi schizzi pianistici di Gyórgy Kurtág.

30 Marzo 2025

Scrive Theodor W. Adorno: “Lo stile tardo non può essere il risultato della vecchiaia o della morte, perché lo stile non è una creatura mortale e le opere d’arte non hanno una vita organica da perdere. Ma la morte incipiente di un artista entra comunque nella sua opera, e in molti modi diversi”1. Adorno non è l’unico a riflettere sullo “stile” delle ultime opere di un artista. C’è perfino un poeta e drammaturgo come Hofmannsthal che schizza un dramma, rimasto incompiuto, sugli ultimi anni di Tiziano. C’è, comunque, una lunga riflessione che la critica letteraria, musicale e artistica ha condotto e conduce sulle opere scritte da scrittori, musicisti, o dipinte da pittori, scolpite da scultori, negli anni “tardi” della propria vita. E sembra che si possa riscontrare tra di esse molti segni che le accomunano: il più evidente è un prosciugamento dello stile, un ridurre all’essenziale gli elementi che costruiscono l’opera.

Si pensi all’Edipo a Colono di Sofocle, in cui l’indicibile della morte non è rappresentato, ma evocato dalle parole di Teseo; si rilegga l’ultima, e straordinaria, stagione della poesia di Goethe, e, in particolare, quella sorta di congedo insieme dalla vita e dalla scrittura (“fehlt am Begriff”, manca il concetto, che è la Marienbader Elegie, elegia di Marienbad, preceduta da una rievocazione di Werther, An Werther, a Werther, e seguita da una ideale pacificazione, Aussönung. riconciliazione, che però attacca, con realismo e durezza molto goethiani, con la constatazione che vivere è soffrire: Die Leidenschaft bringt Leiden, la passione comporta sofferenza. In musica, tra i tantissimi esempi, vengono in mente l’ultimo Bach, l’ultimo Brahms, il Falstaff di Verdi, e, appunto, le ultime sonate e ultimi quartetti di Beethoven. Proprio a questo aspetto dell’invenzione artistica vuole farci riflettere il ventinovenne pianista Filippo Gorini, con una serie di concerti che sta eseguendo in Italia e in Europa. Che sia un giovane a proporlo accresce l’interesse della proposta.

Ma lo “stile tardo”, espressione inventata da Adorno non si riferisce in particolar solo alla vecchiaia di un artista, bensì alla riflessione sulla morte, al sentirla avvicinarsi non solo da parte dei vecchi, ma anche e dei malati, Leopardi, Chopin, Masaccio, Pergolesi, Keats, e, appunto, Schubert. Per l’Accademia Filarmonica Romana Gorini esegue in tre concerti, uno per ogni stagione, le ultime tre sonate di Beethoven e di Schubert, accostandole a una pagina pianistica contemporanea ancora ineseguita in Italia. Quello di giovedì scorso, 27 marzo, al Teatro Argentina, è stato il primo dei tre concerti. Inutile obiettare, per quanto si è scritto poco sopra, come pure qualcuno del pubblico ha fatto, che Schubert è morto molto giovane, a 31 anni, e che dunque parlare di musica “tarda” sembrerebbe inopportuno. In realtà la intensa concentrazione di pensiero musicale che si è ascoltata nell’interpretazione della sua ultima sonata ci dimostra che sì, anche Schubert raggiunge quella limpida semplicità che attribuiamo al lavoro tardo degli artisti, e al presentimento della morte. Ma cerchiamo di capire come questa semplicità o, meglio, questo prosciugamento stilistico, agisca di fatto nell’opera e come Gorini ce l’abbia fatta sentire.

Ad aprire la serata sono stati cinque pezzi di una raccolta che percorre tutta la vita di György Kurtág, uno dei più grandi compositori ungheresi, ancora vivente, che come Liszt e Bartók, nella sua lunga vita – oggi ha 99 anni – ha via via scarnificato gli strumenti della composizione, che comunque per Kurtág, fin dalle prime opere, sembrano percorre la strada di un progressivo prosciugamento della scrittura, quasi a concentrare ogni pagina nelle dimensioni di un aforisma. Come Bartók, e come l’amatissimo Bach, Kurtág ha dedicato grande spazio anche alla didattica musicale, emulando l’esempio bachiano dei due libri del Clavicembalo ben temperato e bartokiano dei sei quaderni del Microcosmos: nascono così i 10 Libri di Játétok (giochi), schizzi pianistici di una essenzialità sbalorditiva e di un forza espressiva immensa. Gorini ne ha scelti i seguenti: In memoriam Edison Denisov, del 1996, Kedves (cara), del 1950, Hazatérés, Hommage a Eótvós Péter, del 2023-24, inedito, In memoria Gyuri Maros, del 2023, inedito, e infine Màrta Ligatùràja (la legatura di Marta), delò 2022, inedito. Kurtág affida alla sola risonanza degli accordi o alla suggestione di brevi cellule melodiche l’efficacia dell’espressione. Come a mettere in risalto il silenzio dal cui bacino nasce e in cui riprecipita la musica. L’omaggio a figure amate estinte, come quella del compositore e direttore d’orchestra Eótvós, acquista così un’intensità struggente. Ma introduce anche al visionario uso strutturale dell’armonia con cui ci assale l’ultima Sonata in do minore op. 111 di Beethoven. Schoenberg doveva pensare proprio a questo quando scrive il fondamentale saggio intitolato Funzioni strutturali dell’armonia.

È invalsa la consuetudine di definire la forma della sonata classica soprattutto in base ai temi che si presentano. Non è sbagliato, ma è riduttivo. Il fondamento della sonata è tuttavia armonico, non tematico: il tema mette in rilievo un uso particolare dell’armonia, come campo di dissonanze e di dissidi. Charles Rosen ce la ha spiegato bene nel suo fondamentale The Classical Style. Ma in Beethoven ciò appare addirittura di una evidenza strabiliante. Gorini lo fa percepire con chiarezza: perfino il ritmo del tema sembra nascere dalla scansione armonica. E il tema non è solo il profilo melodico della linea superiore, ma tutto il complesso della sua struttura armonica, melodica e ritmica. Ciò si fa addirittura esemplare in Schubert, il quale tuttavia dà un rilievo inusuale, prima, proprio il profilo melodico del tema, al punto che talora si configura melodicamente anche la successione degli accordi. Il tema, però, non è limitato alla prima esposizione di una melodia, o di una successione di accordi, ma comprende tutte le sue ripetizioni, di volta in volta mutevoli perché muta ad ogni ripetizione l’impostazione armonica. Nella sua ultima Sonata in si bemolle maggiore D 960 la ripetizione assume, anzi, una funzione strutturale: il tema finisce quando, nella sezione che chiamiamo esposizione, lo si ascolta per l’ultima volta. La lucidità con cui Gorini rende evidenti questi procedimenti è da lezione magistrale, ma con l’aggiunta di una forza espressiva, di una intensità emotiva che sconvolgono.

Così come l’inconsueto, intensissimo bis, l’aria per soprano Schafe können sicher weiden dalla cantata nuziale BWV 208 di Johann Sebastian Bach, trascritta da Egon Petri per pianoforte. Con il che si torna alla fonte di tutto ciò che nel concerto si è ascoltato e fin qui scritto. E udito l’ultimo accordo la memoria lo serba gelosa, vi riaccosta tutta la musica già udita, e l’intero concerto si fissa nel ricordo come un’avventura nelle zone profonde dell’esperienza, la dove il durare del respiro percepisce già il suo arrestarsi. Che è proprio ciò che Adorno ha individuato come “stile tardo”: l’avvertire segreto del passo incipiente della morte. La vita si libera degli inutili orpelli con cui la celebriamo, e si spoglia, si denuda davanti all’ignoto, il nulla, il tutto, o il limbo in cui cessa la sofferenza, e la realtà ci mostra il suo volto essenziale, finalmente scabro, senza fughe o abbellimenti. Un “Actus tragicus”, come ci suggerisce un’altra cantata di Bach, la cui sonatina iniziale, trascritta per due pianoforti, Kurtág e sua Márta, amavano suonare in concerto. E qui la musica chiude il suo cerchio. Con uno sguardo sul tempo e sulla vita, e pertanto sulla morte, lungo tre secoli.

1Citato da Edward W. Said, Sullo stile tardo, Milano, ilSaggiatore, 2009, copertina.

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