Musica

Little Richard è un enigma blackqueer mai risolto

3 Marzo 2024

Il rock’n’roll nacque nero, nonché queer e camp, e questa è una verità ancora troppo difficile da digerire per molti storici della musica. A infrangere la linea del colore fu infatti Little Richard, nato nel 1932 a Macon, in Georgia. A ricostruire la sua parabola artistica e umana è oggi un film dal titolo Little Richard. I Am Everything, presentato dapprima al Sundance e nei giorni scorsi anche nell’ambito di Seeyousound, festival torinese dal respiro internazionale, diretto da Carlo Griseri con Alessandro Battaglini e giunto alla decima edizione con un programma di novanta film di lunghi e brevi, oltre a una ventina di live e dj set con ospiti del calibro di Julien Temple e Cristina Donà.

A fare di questo documentario un’ottima lezione di storytelling sono alcune scelte precise fatte dalla regista Lisa Cortés, forte di una carriera volta alla riscoperta della cultura black e che include la produzione esecutiva di Precious, film che nel 2010 si aggiudicò due premi Oscar e che vantava nel cast anche Lenny Kravitz, Mo’Nique e Mariah Carey. Cortés sceglie infatti di non puntare tutto sui ricordi di altre star, come si fa spesso senza ottenere granché di rilevante (appaiono John Waters, Mick Jagger, Tom Jones, Paul McCartney, Billy Porter), ma privilegiando piuttosto lo sguardo di studiosi e commentatori neri. Vero punto di forza di questo lavoro, sono loro a permettere di esplorare più a fondo questioni legate alla nerezza e alla queerness che altrimenti non verrebbero debitamente approfondite.

“Senza Little Richard, esisterebbe Lizzo? Esisterebbe Lil Nas X? E i Rolling Stones?” chiede la cineasta. E potremmo aggiungere una quantità di altri nomi, da David Bowie a Prince a Elton John (che ne imitarono anche il falsetto) o Tina Turner, senza dimenticare che tra i suoi estimatori ci sono artisti riconducibili ai generi musicali più diversi, compresi il metal e l’hip hop. Se il rock n’ roll è il prodotto americano di maggior successo di sempre, allora queste domande vanno poste, soprattutto ora che negli Stati Uniti vengono messi al bando proprio i libri incentrati su storie di persone afrodiscendenti e queer, come fa notare Cortés.

Non serve sottolineare come Little Richard fosse nero e queer non negli anni Duemila, ma quando questo era, detto in parole povere, inammissibile, illegale. Nei suoi primi anni di vita non aveva avuto molti contatti con persone bianche, in quanto vigeva la segregazione razziale (una forma di apartheid esisteva anche per i concerti, dove il più delle volte bianchi e neri avevano serate ‘dedicate’, affinché non si mescolassero). Inoltre era stato allontanato dal padre per il fatto di essere gay ed effeminato, e performava in drag in un’epoca in cui il cross dressing era vietato, ironizzando sul fatto di essere allo stesso tempo e il Re e la Regina del Blues.

Non era facile essere Little Richard. Non lo era soprattutto dopo il brutale omicidio di matrice razziale del quattordicenne Emmett Till in Mississipi (1955), uno degli eventi spartiacque per la storia del Movimento per i diritti civili, che vide una giuria di soli bianchi assolvere i due imputati. La lunga storia di persecuzione e repressione degli afroamericani sarebbe dunque potuta essere per un performer un motivo sufficiente per decidere di tenere in pubblico tutt’altro profilo.

La sua canzone più nota, Tutti Frutti, che dal 2009 fa parte anche del National Recording Registry della Biblioteca del Congresso, celava invece, dietro un criptico awop-bop-a-loo-mop-a-lop-bam-boom, un inno al sesso anale (il testo fu reso meno esplicito al momento dell’incisione). Lo stesso Richard fu fermato più volte dalle forze dell’ordine perché il suo essere “disinibito, imprevedibile, selvaggio” (così lo descrive il discografico Art Rupe mettendolo a confronto con un più rassicurante Fats Domino) rischiava di confondere il pubblico bianco. Inutile dire che nessun artista all’epoca faceva pubblicamente coming out, e pare che l’abitudine delle ragazze di recapitare sul palco degli artisti la propria biancheria intima sia iniziata proprio con i concerti del genio che scrisse Long Tall Sally.

Ma pur essendo famoso come pochi altri, Richard lamentò a lungo e a ragione quanto gli fu sottratto dalle case discografiche, non solamente per gli accordi sulle royalties, ma anche per l’utilizzo che venne fatto dei suoi brani, frequentemente reinterpretati da artisti bianchi attraverso cover alquanto opinabili o in forma di appropriazione culturale. Se nel caso di Elvis Presley l’esito era musicalmente accettabile, lo stesso non si può dire di altre esecuzioni che gli esperti interpellati nel documentario diretto da Lisa Cortés rievocano con comprensibile disgusto. Nessuno infatti ha saputo privare le canzoni di Little Richard della loro carica erotica come ha fatto Pat Boone, che a ben guardare è il suo esatto opposto: conservatore a dir poco (addirittura amico del guerrafondaio Netanyahu), terrorizzato da una minaccia ‘comunista’ che ancora oggi insiste nel vedere ovunque, in quegli stessi anni Boone declinò persino la proposta di recitare accanto a Marilyn Monroe perché il copione gli risultava immorale. All’apparenza potrebbe sembrare che Pat Boone sia servito per dimostrare che Little Richard può funzionare anche senza allusioni e richiami sessuali, rivendicazione della queerness, glitter o falsetti, ossia in una versione de-politicizzato a beneficio delle masse (e delle vendite in un contesto ancora bigotto). Il sacro contro il profano, la tradizione contro una miccia che può accendersi da un momento all’altro e scatenare una rivoluzione. Ma la verità è che con Pat Boone viene a mancare il motivo stesso per cui quei pezzi sono nati. Pat Boone per i veri fan di Little Richard è peggio di una birra analcolica servita fin troppe volte, ma anche Jerry Lee Lewis, Gene Vincent, Eddie Cochran, Buddy Holly e Bill Haley fecero con le cover guadagni che lui non fece. Finì dunque per sentirsi usato dall’industria musicale, e nonostante i modi un po’ molesti o cringe con cui in seguito lo ha denunciato, beh, aveva perfettamente ragione. Accadde di nuovo in modo palese nel 1963, quando complice l’arrivo di una nuova ondata dominata dai Beatles fu chiamato per salvare un tour dei Rolling Stones nel Regno Unito dal flop che si andava profilando.

“I Beatles e Mick Jagger aprirono per me. Ho avuto Jimi Hendrix alla chitarra, Billy Preston all’organo. James Brown e Joe Tex erano i miei vocalist“: negli anni in cui non era più in classifica ma la sua eredità artistica era ormai assodata non perdeva occasione di riattivare pubblicamente la memoria altrui rispetto al suo status di pioniere, alla maniera di un Pippo Baudo sguaiato che osserva sconsolato il declino della tv di oggi (quello l’ho inventato io / quello l’ho ideato io), come fa chi ha bisogno di rassicurazioni arrivate tardivamente o comunque insufficienti per bilanciare un sentimento di insoddisfazione e di sconfitta.

Eppure, come viene notato nel bel documentario selezionato a Seeyousound, se in tutto il mondo migliaia di persone possono dire di dovere la propria emancipazione sessuale al potere liberatorio delle esibizioni dal vivo di Little Richard, capace di abbattere barriere che nessuno prima aveva osato anche solo nominare, lo stesso non accadeva per lui nel privato. Qualcosa infatti ad un certo punto si interruppe. All’apice del successo si allontanò dall’industria musicale, eliminando anche gli stupefacenti e i discorsi scurrili per i quali era noto, per tentare una catarsi. Diventò un predicatore pentacostale, come già altri membri della sua famiglia di origine, e per alcuni anni si esibì solo con brani gospel, non prima di essersi unito in matrimonio con una donna. Ma ben più spiazzanti furono le dichiarazioni dettate da una qualche forma di omofobia interiorizzata, rilasciate negli ultimi decenni di vita: categoricamente disinteressato al sesso, arrivò persino ad affermare che l’omosessualità sarebbe innaturale, rivelando nient’altro che una tensione per lui costante e irrisolvibile. Come se la condizione queer e quella di cristiano non fossero compatibili e l’unica soluzione possibile per placare la sua inquietudine fosse sacrificare la sua parte eccedente, quella che riteneva avergli creato più problemi. Le sue canzoni erano state la colonna sonora della liberazione sessuale, per tutti, tutti tranne lui.

A quasi quattro anni dalla sua morte osserviamo oggi un lascito complesso. Quello di una leggenda costantemente preda di un caos ingestibile, un’anima eternamente in pena, non per questo meno punk e affascinante. E al tempo stesso, per noi, un ammonimento, un invito a riconoscere certe usanze tipiche anche dell’industria musicale, che al pari di tutte le altre risente dello strapotere di un certo numero di maschi bianchi che decidono in modo tassativo, per tutti, cosa sia opportuno valorizzare o imporre, cosa invece ignorare, o saccheggiare, o condannare, o vietare. Non riuscendo però a contenere certe eccedenze.

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