Musica

L’inconfondibile e abbagliante luminosità di Anna Netrebko

8 Agosto 2021

Che dire del ritorno di Anna Netrebko, nuovamente all’Arena di Verona, questa volta in Turandot di Puccini per la prima volta? Indimenticabile, come sempre, sarebbe riduttivo. Per lei solo tre recite (29 luglio, 1 e 5 agosto) nel nuovo allestimento del festival operistico veronese 2021, in scena dal 29 luglio al 3 settembre. Gli aggettivi non mancano, pure le iperboli per il celebre grande soprano russo, il punto è piuttosto la sua capacità di riuscire in modo straordinario a farci dimenticare la prosaicità e la routine della quotidianità, mostrandoci gioie e drammi attraverso un bagaglio tecnico che in lei pare inspiegabile.

Non canta molto Turandot, fatto che pone ancor di più la voce della Netrebko al di sopra di tutto, e non sembrerebbe neppure un ruolo ideale per lei, che si muove ancora meglio tra personaggi come Leonora in Trovatore o Violetta in Traviata. Eppure lascia attoniti ascoltare il suo pianissimo all’aperto che riempie l’Arena, conservando una forza penetrante come mai è dato sentire, una luminosità abbagliante. Quella sua incredibile capacità di passare all’improvviso da un registro all’altro senza alcuna sbavatura, senza mai perdere profondità, è in grado di evidenziare non solo l’aggressività della temuta principessa, femme fatale da fin de siècle, come, ad esempio, nella formulazione dei tre enigmi, ma anche la sua fragilità, nella sezione successiva, in cui la Netrebko svolge una morbidezza del canto tutta sua, inconfondibile.

Non sfigura affatto Ruth Iniesta (Liù), già ben applaudita come Violetta in Traviata, intensa sempre, concentratissima nel triste destino che avvolge il personaggio, troppo poco concertata e valorizzata dalla bacchetta di Jader Bignamini. Yusif Eyvazov – marito della Netrebko nella vita – non rinuncia a un Calaf un po’ troppo sopra le righe e a tratti usurato nelle tinte, costringendo a un “Nessun dorma” dai tempi esasperatamente lenti e mutevoli, pur conquistando ugualmente il pubblico.

Bignamini ha un gesto sicuro e competente, conosce bene l’opera e i suoi trabocchetti, riesce con discontinuità – ma è quasi impossibile – a tenere a bada il coro distante collocato sulle gradinate di sinistra, per non creare assembramenti in era covid (soluzione che continua solo a causare problemi d’assieme, un’alternativa deve esistere). L’ansia del far bene fa però respirare poco la musica, che difficilmente raggiunge un’unità spirituale, troppo affrettatamente spinta di frase in frase fra numerose rigidità e passaggi molto solfeggiati. Dirigere all’aperto è sì difficile, ma bisogna anche saper sognare un po’, portare voci e pubblico a una dimensione temporale nuova, non ordinaria.

Sullo sfondo di masse agitate e protagonisti statici, in uno scenario di circostanza si alternano le proiezioni su grandi schermi digitali delle belle immagini orientali tratte dal Museo d’Arte cinese ed etnografico di Parma, tanto affascinanti quanto impiegate in una dimensione pittoresca, nemmeno fiabesca ma meramente ornamentale. Successo caldissimo.

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