Musica
L’idea del bello musicale
Rossini e Schubert come diverse espressioni del bello musicale.
Non sempre la prima impressione coglie il dato reale di un fenomeno, tanto meno quando si tratta di un’opera d’arte. La fiducia che molti, ascoltando un brano musicale, confidano all’emozione del momento può essere fuorviante. Vero, certo, che spesso un capolavoro è percepito e colto come tale già al suo primo impatto. Spesso, ma non sempre. Perfino una mente raffinata, coltissima come quella di Eduard Hanslick, il grande critico austriaco, amico di Brahms, e autore di un fondamentale saggio sul bello musicale (Von Musikalisch-Schönen), alla prima esecuzione, postuma, della Sinfonia cosiddetta Incompiuta di Schubert scrisse che si trattava di una musica serena e gioiosa, di un’invenzione melodica insuperata. Solo quest’ultima osservazione corrisponde al vero, perché invece quanto al carattere della musica esso è tragico come di poche altre musiche. Fin dall’attacco, il tema minaccioso e serpentino esposto da violoncelli e contrabbassi al quale si sovrappone il fremito inarrestabile di violini e viole, da cui poco dopo emerge, dolcissimo, ma disperato, il canto di oboi e clarinetti, il senso della musica si rivela per quello che è: un’angoscia irredimibile, per usare un attributo che il poeta Eliot annette al tempo. E angoscia tragica, irredimibile è quella che Myung-Whun Chung imprime al percorso di tutto il sublime torso di questa sinfonia. Secondo concerto ceciliano che Chung offre nella stagione, questo in cui si ascoltano l’Incompiuta di Schubert e lo Stabat Mater di Rossini (due contemporanei, non lo si dimentichi e, anche, due insuperati inventori di straordinarie melodie). Nel primo concerto ceciliano avevamo ascoltato Beethoven e Brahms, altre due, diversissime, declinazioni del tragico. Chung sembra volerci oggi proporre una sua, personale, visione dell’esperienza attuale del tempo. Perfino nel suo paese, la Corea del Sud, le vicende non sono delle più serene. Ma il resto del mondo sta male. Malissimo. E non stava meglio quando Schubert compone l’Incompiuta e Rossini il suo sublime Stabat Mater. Lo Schubert di Chung è allo stesso tempo dolcissimo e disperato, violento e rassegnato: dopo l’esasperazione e lo struggimento quasi leopardiano del primo tempo l’Andante con moto arriva come una pietra tombale: siamo in mi maggiore, ma i contrabbassi attaccano subito, pizzicata, una figura che precipita in giù, simulacro o scheletro della figura discendente che aveva aperto il primo movimento. I violini, però, sembrano acquietarsi in un canto quasi da ninna nanna, e la figura calma dei bassi chiuderà il pezzo, di nuovo i violoncelli, sostenuti dai contrabbassi, precipitano, pizzicati, nel vuoto: un sepolcro, o il nulla, per l’ateo compositore viennese (altra affinità con Leopardi). Che cosa avrebbe Schubert aggiunto a questi due movimenti non è dato saperlo. Ma forse la risposta sta in un’altra sinfonia: quella in do maggiore, settima, nona, decima, secondo le diverse numerazioni del complicato catalogo schubertiano, ma per intenderci quella chiamata “la Grande”. Schumann parla di “divina lungaggine”. La tragedia è chiamata finalmente con il suo nome: la morte, la fine della vita, quella che tocca a tutti, a qualcuno, come a Schubert, malato di sifilide, prima degli altri. La figura ritmica della morte, nella musica di Schubert – ma già prima in quella di Beethoven, Sonata op. 26, Eroica – sono due piedi della metrica classica, un dattilo seguito dallo spondeo: lunga breve breve, lunga lunga. Il ritmo della marcia funebre – anche l’Allegretto della Settima Sinfonia, in Beethoven, proprio la sinfonia del primo concerto ceciliano di Chung. La figura è esplicita nella Grande, mascherata, o meglio variata, nell’Incompiuta. Il salto da Schubert a Rossini sembra incommensurabile. O forse no. Hegel ci dà una mano a comprenderlo. Il filosofo tedesco è contemporaneo sia di Beethoven sia di Schubert. Eppure non è Beethoven il suo ideale musicale – come lo è per Schubert, che tuttavia va lo stesso per un’altra strada, L’ideale musicale di Hegel, come sarà poi per Schopenhauer, è Rossini. Ma si tenga presente che il Rossini di un ascoltatore del primo Ottocento non è quello dell’opera buffa, o non è solo quello dell’opera buffa, bensì il Rossini tragico dell’opera seria, Tancredi, Maometto II, Mosè in Egitto, Guglielmo Tell. E questo Stabat Mater. Che cosa significa per Hegel che Rossini realizza il bello musicale ideale? Che la tragedia non è “espressa”, come nei concitati, tortuosi musicisti romantici, ma rappresentata, come in una tragedia classica, come in Sofocle. Freud direbbe “sublimata”. Il dolore non deve manifestarsi in forme scomposte, ma deve trovare rappresentazione in una forma armoniosa, equilibrata, classica. Come nella pittura di un Raffaello, o di un Tiziano: pittori ammiratissimi nel primo Ottocento, additati anzi come modello di perfezione pittorica. Ecco, per Hegel Rossini è come Raffaello: il dolore assume una forma armoniosa, equilibrata, bella. L’inquietudine non è affatto estromessa, ma non rompe l’equilibrio della forma. E Rossini, del resto, per Dahlhaus, il grande musicologo e storico della musica tedesco, autore tra l’altro di una bellissima storia musicale dell’Ottocento, ha il senso della “grande forma” come nel suo tempo quasi solo Beethoven. Quella “grande forma” auspicata da Nietzsche, e che anche Nietzsche riconosceva in Rossini, e poi, da ultimo, in Bizet. Chung è questa forma ideale, perfetta, che vuole restituirci. Un equilibrio, un distacco che potremmo anche dire orientale, zen, ma che di fatto è quanto più si avvicina alla terribile complessità del mondo rossiniano. Basterebbe il magnifico coro a cappella ”Quando corpus morietur”. Eccola, anche per Rossini, la morte. Guardata, vissuta, con terrore e distacco, ma rappresentata con un equilibrio inimitabile di tutte le voci. Straordinario il coro ceciliano diretto da Andrea Secchi. I solisti, impegnati in una difficilissima prova, erano il soprano Chiara Isotton, il mezzosoprano Teresa Iervolino, il tenore Levy Segkapane e il basso Adolfo Corrado. Che il pubblico e l’orchestra esplodano alla fine in entusiastici applausi è più che giustificato. (La foto iniziale mostra Chung al pianoforte. Non a caso. L’esperienza dello Schubert pianistico è forse la via principale, quasi più del Lied, per entrare nel suo mondo espressivo).
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