Musica

L’icona rap della ribelle periferia bernese

27 Giugno 2021

Immaginatevi di essere una bambina alta e secca come uno spaghetto, con degli immensi occhi neri, e di crescere con l’animo ribelle a Breitsch, il quartiere di Berna (che è una delle più assonnate città dell’intero universo) costruito lungo la ferrovia per degli operai che non vennero mai, perché lo snodo centrale dei treni, per motivi politici, si fece ad Olten.

Immaginatevi di avere un cuore punk, di avere 13 anni, di andare ogni pomeriggio alla stazione abbandonata, dove altri fumano, si rosicchiano via la lacca dalle unghie, fanno le impennatine con il motoscooter o il monopattino (la Svizzera, che Paese…) oppure mettono lì mangianastri gigante e volteggiamo con lo skate, i pattini o la breakdance – ma non voi, perché non avete né l’uno né l’altro oggetto.

La stazione ferroviaria del quartiere di Breitsch, a Berna

Sappiate di chiamarvi Stefanie Peter, Stefania Di Pietro, e siate certe che, con quel nome, potete terrorizzare solo la coppia di pensionati del piano di sotto. Ed immaginate una via d’uscita da questo incubo che non è nemmeno metropolitano, perché un conto è essere un’anima persa alla periferia di Detroit che si misura con le gang afroamericane del luogo ed alla fine ci si chiama Eminem, un altro è battersi in una nazione divisa in quattro aree linguistiche, una delle quali (la tua) a sua volta divisa da dialetti difficilmente comprensibili già a soli 30 km da casa.

Come dice il grande filosofo bolognese Gianni Morandi, uno su mille ce la fa. Stefanie cambia il nome in Steff La Cheffe (Steffi la Capetta) e, invece di scrivere testi ipercomplessi in dialetti che confinano con le lingue morte, diventa una stella del beatboxing – ovvero replica, con la bocca, ritmi e suoni della batteria acustica e di quella elettronica, che questo lo puoi fare ovunque nel mondo, ed a 16 anni, scappata di casa (alla bernese, ovvero andando e tornando periodicamente), si mette a girare l’Europa, dal Portogallo al Baltico, e si guadagna da sopravvivere esibendosi dapprima alle stazioni ferroviarie, poi nelle piazze durante gli orari di punta dei grandi magazzini, ed infine nei locali dell’underground di tutto il continente. Nel 2009, a Berlino, Steff è stata eletta vice-campione del mondo di beatboxing. E lì c’erano veramente tutti, anche le anime perse delle grandi città maledette di tutto il mondo.

Steff e Dodo

A 20 anni, Steff è diventata un’icona, perché lo spaghetto di Breitsch, con quegli occhi neri, ha un non so che di adorabile e maledetto, perché i suoi testi non sono aggressivi come quelli di Eminem ma piuttosto l’espressione di una coscienza latente che si sveglia con un sobbalzo dalla pennichella adolescenziale e, essendo la Svizzera tedesca grande quanto la Provincia di Belluno, diventa la spalla più amata da artisti di ogni tipo ed indirizzo, il che la rende non famosa, ma un mito dell’underground. Finché non incontra un raggamuffin chiamato Dodo – un ragazzo keniano, cresciuto in Svizzera e divenuto famoso con un reality show che è l’equivalente dell’Isola dei Famosi.

Steff e Dodo scrivono una canzone. Un assoluto capolavoro. Un rap etnico in lingua bernese, il cui tema è “non ho la minima idea” (Ha ke Ahnig) ed il cui svolgimento è una frase che esiste solo in dialetto svizzero: chume nid drus, che vuol dire qualcosa del tipo “non lo capirò mai”. Il tutto inscenato come canto tribale africano. Meraviglioso.

La scrivono nel 2010. Da allora Steff è diventata una stella del glamour elvetico e della TV in lingua bernese. La fine del ribellismo in un paese di estremo benessere. Ma io scrivo dalla nostra bella Italia e, come cantava Guccini raccontando della “locomotiva, come una cosa viva, lanciata bomba contro l’ingiustizia”, vi parlo di Steff come era nella perfezione della sua gioventù sbarazzina, ingenua, furbina ma perdonabile di quando uno scherzo, fatto seriamente, fece innamorare gli svizzeri. O, come accadde in Italia mezzo secolo fa, quando Rita Pavone, travestita da Gian Burrasca, registrò quell’inno immortale che è “Viva la pappa col pomodoro”.

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