Musica
Le quattro pallottole che uccisero il sogno
Oggi, quarant’anni fa, un deficiente uccide John Lennon. Quattro colpi alle spalle, per motivi che interessano solo Barbara D’Urso e gli avvoltoi come lei – che sono tanti. Quel pazzo non spara solo ad un musicista fondamentale per la storia del secolo, ma mette il sigillo finale su una generazione di eccessi, di passione, di allegra isteria e sobria rabbia. Mentre la gente, disperata, affolla le strade con candele e fiori, muore il sogno californiano e londinese di un mondo diverso, quello in cui i Biechi Blu verranno sconfitti dall’amore, dall’immaginazione, dai discoli innamorati della speranza.
L’8 dicembre è una data veramente simbolica, piena di ricorrenze, molte delle quali legate a quel mondo, cui avrei amato appartenere. Un mondo iniziato dalla Swinging London, dalla Reeperbahn di Hamburg e dalle coste californiane alla fine degli Anni 50, che aveva significato, poco più di un decennio dopo l’Olocausto e la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, l’alba di un sogno di un mondo di pace, di solidarietà, di bellezza, di creatività – una sorta di eterna estate dell’anima, che idealizza un afflato segreto, nascosto dietro l’apparente autodistruzione delle generazioni cantate da Jack Kerouac e Truman Capote, e poi celebrato in “Easy Rider”: l’idea che la bellezza e l’amore vincano in virtù della loro luce, e nonostante le continue persecuzioni – specie quelle sanguinose degli Stati Uniti d’America, uno dei luoghi in cui la violenza del potere è più efferata, volgare, spietata.
Si cristallizza nella protesta contro la guerra suicida nel Vietnam – una guerra ancor più dissennata di tutte le altre, perpetrata per fini di guadagno economico dell’industria e dei politici americani, in nome dei cui proventi sono morte ammazzate due milioni di persone, 60’000 dei quali ragazzi americani. Una generazione che, dopo il conflitto mondiale, avrebbe avuto diritto ad un futuro diverso. Una protesta soffocata nel sangue, che trova tra i suoi angeli un ragazzo nato anche lui l’8 dicembre, Jim Morrison. Una protesta inaugurata il 5 dicembre del 1966, quando Stephen Stills scrive “For what it’s worth”, il primo grande inno di protesta degli studenti californiani, che trasforma la musica di quell’area benedetta dal Laurel Canyon: accanto agli esperimenti psichedelici dei Jefferson Airplane, dei Grateful Dead e del LSD, ora c’è gente che canta di politica, ed è furibonda. Stufa delle canzonette.
Mama Cass Elliot, la divina cantante dei Mamas & Papas, alla fine di novembre del 1967, ha comprato casa a Laurel Canyon – una zona povera e campagnola dietro le colline di Hollywood, dove pagavi pochissimo e non ci voleva abitare nessuno. Tutti andavano da lei, quando litigavano, quando erano tristi, quando avevano finito i soldi, quando avevano bisogno di una sorella e di una pannocchia di mais bruciacchiata in giardino. Nel giro di otto mesi tutto il mondo della bellezza trasloca laggiù, in un vialone lungo alcuni chilometri, che oggi si chiama Woodstock Road: Frank Zappa, Joni Mitchell, John Mayall, i Buffalo Springfield di Stephen Stills e Richie Furay, i Byrds di Jim McGuinn, James Taylor, gli Eagles, Jim Morrison, Carole King, Jackson Browne, i Monkees, Linda Ronstadt…
L’8 dicembre del 1969, l’inglese Graham Nash, stufo delle sciocchezze che cantava con gli Hollies, si ferma a Laurel Canyon per un paio di giorni, a casa di David Crosby, ed incontra Joni Mitchell – nasce una delle più grandi e tragiche storie d’amore di sempre – e nascono Crosby, Stills, Nash & Young che, in soli 18 mesi di vita, diventeranno la band più importante della generazione della “Summer of ’69” cantata da Bryan Adams e sognata da milioni di ragazzi di tutto il mondo – io per primo.
Erano ragazzi. Avevano tutti 20 anni e facevano ciò che era giusto fare: si amavano, si ferivano l’un l’altro, si rovinavano la salute, scrivevano canzoni, nascondevano amici che sfuggivano la polizia (come Neil Young), passavano le serata insieme a strimpellare, mangiare pannocchie di mais, insegnare ai figli a camminare, e poi provavano per i concerti di ogni fine settimana. Tra il 1965 ed il 1970 la migliore musica degli ultimi 3000 anni è nata in un’area grande come il quartiere romano di Centocelle.
Io non c’ero. Ma almeno so che tutto ciò è esistito, e che sarebbe possibile che si ripeta. Non durante la mia vita, ma non importa. Siamo granelli di sabbia – e solo tanti granelli, tenuti insieme dall’umidità che trasforma la sabbia in cemento, cambiano la vita, per sempre. Alcuni di quei meravigliosi ragazzi sono morti senza nemmeno capire perché – molte canzoni nascono da sé, e lo stesso autore ne capisce il significato solo mille anni più tardi. Perchè quel mondo è tramontato senza accorgersene, nella convinzione (che abbiamo avuto tutti) che l’estate sarebbe stata eterna e per noi non ci sarebbe mai stata vecchiaia.
Nel pomeriggio del 7 dicembre del 1976, il chitarrista Don Felder, che ancora abita a Laurel Canyon, dopo aver chiamato Glenn Frey e Don Henley, li invita negli studi di registrazione dell’Asylum, perchè – dice – ha finalmente trovato una melodia per il testo delirante di Henley sulla fine del sogno americano: su una California che, da patria del futuro, si è trasformata in un Hotel chic nel quale si può arrivare solo per caso, ma non si può più scappare – fin dagli eventi del 1969. L’8 dicembre nasce “Hotel California”, una delle più belle canzoni mai scritte, nel giorno in cui Jim Morrison avrebbe dovuto compiere 33 anni.
Certo: i cristiani ricordano questa data come quella in cui Maria di Nazareth rimane incinta, ancora vergine, del giovane Gesù, che nascerà dopo solo 17 giorni di gestazione. Ma io appartengo ad altro, credo in un Dio non schiavo della fittizia toponomastica ecclesiale, ma Padre della Bellezza. Per me, quindi, l’8 dicembre è un giorno importante, pieno di tristezza e malinconia, che nella mia immaginazione culmina nell’ultimo giro dell’assolo di “Hotel California”, quello con le chitarre di Don Felder e Joe Walsh che duettano in controcanto. Una canzone che porta sfortuna, perchè fu l’inizio della disgregazione di una delle band di maggior successo della storia della musica.
Resta l’8 dicembre, compleanno di Jim, dell’amore di Graham e Joni, di una canzone indimenticabile – ed anniversario della morte della nostra gioventù, spacciata con quattro colpi di rivoltella in una mattina gelida newyorkese. Non c’è che l’inverno per uccidere l’estate, e la bruttezza ha un solo modo per trionfare: distruggere. Buon Natale, “stupido mondo mondiale” (cit. Mafalda, Quino)
https://www.youtube.com/watch?v=x47aiMa1XUA
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