Musica
Le opinioni di Franco Battiato
Se non fosse che talora i comici o i cantanti irrompono con il carico delle loro ideuzze sulla scena politica non ci sarebbe da curarsene. Dagli anni ’70, quando la partitocrazia, già allora scricchiolante, cominciò a candidare al Parlamento comici, attori, cantanti per attrarre consenso, una delle evidenze della nostra vita culturale collettiva è il fatto che i cantanti, i comici, gli attori o i producer televisivi come Freccero sono diventati degli opinion leader. Bravissimi nella loro arte (il canto, la musica, la recitazione, la programmazione televisiva) spesso e volentieri vengono allo scoperto con le loro idee. Che come tutte le idee sono giuste o sbagliate a seconda dei punti di vista. Ma ciò che sbalordisce è la loro formulazione. Il loro voltaggio espressivo è basico, il loro spessore tenue come una sottiletta, la loro profondità una pozzangheretta di banalità e luoghi comuni. Personaggi che se non avessero il loro nome da esibire nessuno curerebbe né seguirebbe, trascinano folle di entusiasti fan e spesso, quel che più conta, determinano orientamenti elettorali corposi, ossia il nostro scenario politico, come abbiamo già visto non solo per il comico leader ma per tutta la genia di uomini e donne di spettacolo, a partire da Mina, Mannoia, Ferilli ecc. che gli sono andati dietro.
Mentre non ci si dovrebbe lasciar sviare nella fruizione della loro arte – che occorre continuare ad apprezzare quando è riuscita e convincente – dalle scempiaggini che dicono fuori dal loro contesto, così dovrebbe succedere per il contrario: di non prendere sul serio le loro opinioni sulla base delle loro capacità artistiche. Ma così non accade.
Prendiamo il caso di Franco Battiato. Fortuna che dopo Povera patria, canzone che è quello che è: un lamento e un’invettiva assieme piuttosto generici e dal dolorismo impostato, qualcosa di più di “piove governo ladro” e qualcosa di meno dell’ “io so” di Pasolini, ma anche un anticipo del coro grillino “Onestà, onestà”, e comunque un lamento tutto rivolto contro i governanti ma che manda assolto il popolo, quello che in massa tarocca i badge, non paga le tasse e finge incidenti per frodare le assicurazioni, fortuna dicevo che non sia stato sfiorato dall’idea di fondare un suo movimento politico. Restano però alcune sue dichiarazioni che non possono non lasciare perplessi. Alcune di esse hanno irritato Massimo Onofri che verso Battiato indirizza un po’ di malumore nel recentissimo Passaggio in Sicilia con molte ragioni, ma dalle quali vorrei discostarmi in parte.
Onofri si lancia in una invettiva, neanche lui sa quanto giustificata, contro questo cantautore per lui così irritante nonostante abbia scritto qualche memorabile canzone come La cura, La stagione dell’amore e Ti vengo a cercare. Gli rimprovera, sulla scorta di alcune interviste, quel moralismo dozzinale di chi si iscrive d’ufficio nel partito degli onesti, tratto che confluirà nella canzone Povera patria, ma anche «la simulazione della profondità […] ottenuta per disinvolto sincretismo da tutte le religioni e da ogni filosofia orecchiate negli anni. I suoi utenti – poco importa se delle canzoni o dei film imbarazzanti che s’è messo a fare – possono acquistare così a basso prezzo, una patente di spiritualità, un titolo di esoterica nobiltà».
Nel leggere alcune esternazioni di Franco Battiato, invero, ci si mette le mani ai capelli. Ma egli è stato sempre così: il latore di uno spiritualismo generico e sincretistico, ove il frate e il Profeta si scambiano la barba. In tarda età si sono aggiunti anche i filosofemi da pensiero negativo dello sfinito Sgalambro. Però occorre tornare alla canzone in sé. Nella sua poetica e musicalità, sia dodecafonico-tedeschizzante, sia mistico-orientale, ricordi etnei e pedemontani, dervisci rotanti e danzatori bulgari, contrabbandieri macedoni, gesuiti euclidei, si mischiano, con un nonsensical alto di gamma, diciamolo, in un suasivo codice midcult che ha senso e sottile fascino solo in quel sinolo (parola e musica, dove dei due non si sa qual è la forma e quale il contenuto) che è la canzone, meglio se con orchestrazione del Maestro Giusto Pio.
Proibito ascoltarlo, dunque, quando parla in prosa come Monsieur Jourdain o lontano dal palco o dalla sala di registrazione, come del resto Antonello Venditti quando esterna lontano dal suo accattivante lirismo rionale (Giulio Cesare) o Celentano dal suo ecologismo anticipatore.
E con tutto ciò si può restare grandi artisti. Com’è vero che ci sono scrittori/narratori strabilianti ma con una debolissima visione del mondo. Qualcuno mi sa dire qual è l’ideologia di quel narratore seriale e geniale che è Dumas?
Occorre dunque chiudere un occhio sulla prosa e aprire l’altro sulla “poesia”, sulla canzone in sé, separare l’artista sorgivo dal guru in proiezione pubblica. Di un grande e originale artista sono non solo le composizioni degli anni Ottanta ricordate da Onofri, che credo piacciano a molti e che conservano ancora intatto il loro fascino, ma anche le canzoni in dialetto catanese, meglio dire, ionico (Battiato è nato a Ionia infatti, il nome fascista di Giarre-Riposto). Queste composizioni sono di una dolcezza infinita e di stordente bellezza, destinate solo agli happy few che sanno decifrare le malie linguistiche di “Duminica iurnata di sciroccu/fora non si pò stari/ppi fari ‘npocu i friscu/chiuru a finestra a vanidduzza/ e mi vaiu a ripusari”, “U santu è di marmuru e non sura“, ” e tutti arreri o santu ‘nda vanedda” o “no mo jaddineddu mi piaci stari sula“. Cito soprattutto da Strade parallele (aria siciliana) cantata insieme all’indimenticabile, solare, mediterranea, Giuni Russo, peraltro sublime interprete dell’ultima meravigliosa canzone balneare, scacciapensieri, di bella tradizione italiana che è Un’estate al mare, scritta da Battiato, la quale per levità e forza evocativa di estasi balneari – oggi bombardate da musica psichiatrica tum-tum, da rap dalla versificazione slombata e da latinos generici- , sta alla pari, nel genere, con la deliziosa Abbronzatissima di Edoardo Vianello degli anni belli e indimenticabili che furono.
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