Musica

Le identità mobili del jazz contemporaneo nel trio di Vijay Iyer

5 Febbraio 2015

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a suonare!

 

Dopo un disco come Mutations (dedicato a una serie di composizioni da camera) e il dvd Radhe Radhe: Rites of Holi, che, pur interessanti, difficilmente potevano accendere gli entusiasmi degli appassionati, il nuovo lavoro per la Ecm del golden boy del jazz di oggi, il pianista Vijay Iyer, è in trio, la formazione più rappresentativa dell’identità espressiva del musicista.

 

Il sodalizio con  il contrabbassista Stephan Crump e il batterista Marcus Gilmore è infatti un organismo musicale che ha dimostrato negli anni di sapere rispondere alle “esigenze” del piano trio contemporaneo (varietà ritmica, allargamento del repertorio, trasversalità d’approccio) con grande personalità, sintetizzando eredità stilistiche minoritarie (pensiamo a Andrew Hill, Jaki Byard) e aprendo nuovi livelli di interazione tra la materia musicale e la pratica improvvisativa.

 

Il disco si chiama Break Stuff ed è lo stesso Iyer a definirlo come “ciò che avviene quando sono stati affrontati tutti gli elementi formali […] il momento in cui agire e in cui ogni cosa viene alla luce“, una definizione che racconta bene la capacità del pianista di infondere energia e urgenza a processi musicali che sono anche molto pensati (i detrattori sono soliti tacciare Iyer di “freddezza” e “cerebralità”, sensazione che i primissimi dischi potevano forse ingenerare, ma che con il tempo ha trovato invece una sua significativa smentita).

 

È un intellettuale, Iyer, anche se a qualcuno questo termine sembrerà desueto.  Un musicista che non rinuncia mai al pensiero e alla complessità, che ha uno sguardo a 360gradi sulle arti contemporanee (questo elemento credo abbia pesato positivamente nell’attribuzione della prestigiosa McArthur Genius Fellowship nel 2013, fonte anche di aspre polemiche nei pianerottoli del condominio jazz…) e che dall’incontro con gli elementi fluidi della cultura urbana del 21mo secolo trae gli snodi per una musica sempre vivacissima.

 

Come sempre nei suoi dischi in trio, i materiali sono di provenienza eterogenea. Ci sono alcuni temi (quelli a titolo “ornitologico”) “Starlings”, “Geese” e “Wrens”, che nascono per il progetto Open City, basato sul bel libro di Teju Cole che porta lo stesso titolo – in Italia è uscito per Einaudi, splendidamente tradotto da Gioia Guerzoni – e non è un caso che ci sia una forte affinità di temi fra Iyer e Cole, accomunati da un’identità americana costantemente in confronto dialettico con le proprie radici (l’India e la Nigeria rispettivamente)  .

 

 

Ma c’è anche l’omaggio al produttore Robert Hood, uno dei nomi più significativi di quella techno di Detroit che una buona percentuale degli appassionati di jazz ritiene (spesso per snobismo e scarsa curiosità) inascoltabile e che invece è un esito molto significativo della creatività musicale afroamericana della fine del 20mo secolo.

Il pezzo, “Hood”, opera in un certo senso una specie di trasposizione acustica delle stratificazioni ritmiche tipiche delle produzioni del dj, in un incalzare drammatico davvero coinvolgente.

 

Ci sono alcuni temi che fanno parte della Break Stuff Suite, pensata per il MoMA di New York, come la title track o “Mystery Woman”, brano che nasce dalla complessa combinazione ritmica tipica della musica del Sud dell’India.

 

E ci sono alcuni riferimenti puntuali alla grande tradizione jazz: il Thelonious Monk di “Work”, il John Coltrane di “Countdown”, cui viene riservato un entusiasmante trattamento ritmico di chiara matrice africana.

Iyer da solo si ritaglia poi una rilettura asciutta e cristallina di “Blood Count”, il meraviglioso brano-testamento di Billy Strayhorn.

 

C’è soprattutto il “senso” di questo trio.

Lo avevamo imparato ad apprezzare nei dischi incisi per la Act, Historicity e Accelerando.

Lo troviamo qui in una compiutezza che a un primissimo ascolto può sembrare appena leggermente manierata (i più maligni penseranno “ecco che la Ecm ha addomesticato pure lui!”) e che invece con il passare del tempo svela una profondità musicale preziosissima.

 

Quella di Iyer è una musica che ascolta e sorveglia quello che accade attorno a sé, in modo puntiglioso e forse utopicamente panacustico (per riprendere alcune suggestioni del filosofo francese Peter Szendy), che ne registra le inquietudini e i focolai di ridefinizione identitaria.

Una bella differenza – tanto per fare qualche esempio nobile – rispetto a un Keith Jarrett che sembra ascoltare (sebbene con una sensibilità straordinaria) solo se stesso o a molti altri pur notevoli jazzisti cui l’abitudine all’ascolto della tradizione sembra diventata più un ostacolo che un’opportunità.

 

Quella di Iyer e dei suoi due compagni di avventura (che, diciamolo, sono musicisti di livello davvero immenso) è una musica che probabilmente, ben incardinata nei meccanismi della nicchia – e ora dell’accademia – magari non riuscirà a modificare in modo sensibile il panorama impigrito degli ascoltatori del jazz, ma che – comunque vada – ha le carte in regola per farlo.

 

(Forse non sarà un caso che, un paio di anni fa, conducendo degli ascolti per una classe di ragazzini e ragazzine di 15anni un po’ annoiati, la loro preferenza andò a una versione di “Human Nature” suonata proprio dal trio di Iyer!)

 

Il 2015 del jazz inizia bene.

 

P.S. il trio di Iyer sarà in Italia a Marzo, al festival di Bergamo e a Messina

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