Musica

Le discese ardite e le risalite. Ricordando Battisti

9 Settembre 2015

Cosa abbiamo avuto io e quelli della mia generazione  negli anni in cui cantava Battisti sui versi di Mogol? Abbiamo avuto il cinemascope, i primi libri tascabili a buon mercato, i primi amori tra coetanei (le generazioni precedenti si “formavano” nei bordelli), le prime delizie di un’autostrada con la quale attraversare tutta la Penisola, la gioia di vivere in un Paese ancora indicibilmente bello con “nell’aria” le loro  canzoni, di Mogol-Battisti. Nessuno potrà dire cosa è stata la dolcezza di vivere se non ha vissuto la giovinezza negli anni ’60 -’70 in Italia, anni in cui sembrava che il futuro, e per l’ultima volta, avesse ancora un avvenire.

In omaggio all’amatissimo cantautore morto il 9 settembre del 1998 alcune riflessione sulla canzone italiana  che egli così magistralmente ha saputo interpretare, mettendosi sulla sua scia e innovandola.

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La canzone italiana così come la conosciamo noi nasce alla fine dell’ ’800 (per Gianni  Borgna addirittura a metà dell’’800 con “Santa Lucia”) dalla romanza da salotto o dalle arie  dell’operetta,  si sviluppa per tutto il ‘900, ha il suo momento magico di larghissima diffusione popolare (grazie anche all’invenzione dei mezzi tecnici di riproduzione e di ascolto a basso costo, il giradischi e il disco di vinile) negli anni 50-90 con il suo picco negli anni ’60 e metà dei ’70.

Musica e parole

La questione ha avuto una trattazione “alta”, già in ambito operistico,  con le polarizzazioni di Monteverdi (“La musica serva delle parole”) e Salieri (“Prima la musica e poi le parole”).  Nel nostro ambito è solo un modesto  buon senso che ci spinge ad asserire che in effetti sia musica che parole sono inscindibili nella  composizione, esecuzione ed ascolto della canzone. È praticamente impossibile scindere i due elementi che bisogna cogliere invece nella loro indissolubile unità. Possiamo dire che le parole senza la musica sono vuote e la musica senza parole è cieca. Spesso accade che ad una musica geniale si accompagnino testi miserabili e viceversa. La perfezione si ha  quando i due elementi entrano in perfetto equilibrio e non sai più a quale dei due   attribuire il più forte peso fascinatorio.  Dice Gianni Borgna:« La parola nella musica non è la stressa che nella poesia. La parola poetica è musicale di per se stessa e mal sopporta l’aggiunta della musica. (…) Cos’è che rende “poetico” “Il cielo in una stanza”? Non certo il testo, in sé piuttosto banale, ma l’amalgama perfetto tra “quelle” parole e “quella” musica. Amalgama sia detto a scanso di equivoci, difficilissimo da realizzare».

Aggiunge, sul tema della coniugazione del testo con la melodia, Sergio Endrigo in un’intervista rilasciata al sommo  Michele Bovi: «È un matrimonio difficile, ma quando si consuma affiorano pagine indelebili. Mi piace ricordare Fontana e Migliacci con la loro bellissima: “Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato”. Non basta un testo fascinoso, il più geniale dei compositori potrebbe mettere in musica l’”Inferno” di Dante con esiti grotteschi. Se un testo incontra la giusta melodia il risultato è garantito a prescindere da ogni significato. Ricordo un brano di quando avevo 13 anni. Lo cantava Luciano Tajoli: “Il mare non ama i bastimenti alle catene, se il mare a nessun altro vuole bene, perché deve volerne a me?”. Suonava alla perfezione, nonostante l’evanescenza concettuale. Potrei fare altri esempi come “La pioggia non bagna il nostro amore quando il cielo è blu” oppure “Il mondo non si è fermato mai un momento, la notte insegue sempre il giorno ed il giorno verrà” frasi che stese su pagina hanno poco senso ma che sposate alle rispettive melodie acquisiscono un’energia portentosa… Intendo dire che la canzone non deve necessariamente essere impregnata di poesia. Capolavori come “Pippo non lo sa”, “Maramao perché sei morto” o “Il pinguino innamorato non erano stati corretti in bozza da Carducci».

Ma entrambi gli elementi giocano al ribasso: la canzone – a differenza della poesia – non si prende mai sul serio: risiede  qui la sua forza, e  la sua subdola e canagliesca presa sul  nostro animo. Essa lavora nella zona grigia del precordio, in una zona indistinta dell’animo, dove viene  archiviata dopo l’ascolto, spesso a nostra insaputa, tra i ricordi e le sensazioni di tutti i giorni, di modo che al riascolto di quella scattano subito questi.   La poesia chiede un processo intenzionale. La lettura o l’ascolto consapevoli. Le canzonette invece sono “nell’aria” sin dai tempi degli organetti di Barberia. Entrano nell’anima senza chiedere permesso e s’infiltrano nella memoria come dei cookies per usare un termine dell’informatica.  La poesia delle canzoni nasce dunque da un processo inintenzionale e come per magia, da materiali poveri, talora da un’accozzaglia di versi sciamannati (vedi  “Abbrozantissima”  e tutte le canzoni balneari e scacciapensieri degli anni ’60, piccoli capolavori di vitalità e ilarità italiane) e da una musica senza pretese (va bene anche il segnale della sirena dei pompieri come in  “Se telefonando”  cantata da Mina, musica di Ennio Morricone o il solito  “giro di do” ossia i quattro accordi do+, la-, re-, sol7) .

Molte canzoni ci fanno sentire più intelligenti dei loro autori, per questo le cantiamo volentieri, ma in fondo, quando  abbiamo finito di ascoltarle o cantarle, avvertiamo che nel giro breve dei due-tre   minuti  di mancata vigilanza, di perdita del nostro controllo, ebbene… pensieri, immagini, sensazioni, sono transitate subdolamente   da una mente all’altra da un cuore all’altro: insomma è avvenuto un processo, seppur piccolo e senza pretese, di  istillazione  e trasferimento di poesia.

Ma una canzone è legata ad un’epoca della nostra vita, spesso al volgere breve di una stagione (non solo l’estate). È un nostro segnatempo interiore. È in tal senso che la canzone  è   l’accompagnamento naturale del  vivere quotidiano. Come dice Oscar  Wilde essa ha il potere di ricordarci “Un passato personale che fino a quel momento ignoravamo” (cit. in G.Borgna).

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Diceva Flaubert a   proposito delle canzonette: « Ci si stupisce della perfezione di alcune canzoni popolari. Chi le ha scritte spesso non è che un imbecille, ma quel giorno che le ha scritte ha “sentito” meglio di una persona intelligente». (Brano tratto dalla “Corrispondenza“, a Louise Colet, 3 gen. 1853).

Canzone e leggerezza

Spesso il testo sta alla canzone come i cartoni animati alla realtà.  C’è una sintesi dei caratteri e della sostanza della realtà, ma non la realtà: le  parole  sono allusive e sfumate, e spesso, per l’obbligo della rima, raggiungono forme di artificio verbale che volentieri   perdoniamo loro: è una canzone, ci diciamo, ed è così che vorremmo… “perderci ad Alghero in compagnia di uno straniero” o  “mentre al suo cuor mi stringeva, come pioveva, come pioveva…”

Diceva François Truffaut che «le canzoni che più mi hanno segnato sono anche le più stupide».  Il periodo in cui la canzone italiana ha raggiunto il massimo della leggerezza e del disimpegno – assolvendo però egregiamente ad uno dei suoi elementi costitutivi -, è stato negli anni ’60, in quelle canzoni balneari, scacciapensieri, talora  sciocche  talora geniali, tutte sabbia penne fucili ed occhiali che non si ponevano come obiettivo che di accompagnare un amore estivo, una giornata di  riposo, una stagione bella e fuggente. Dico che in quelle canzoni le parole hanno una evanescenza intenzionale, indicano le cose (gli amori, le passioni) come attraverso dei filtri  colorati: sono già  flou nel nascere.

Tutto ciò è durato fino ai primi anni 70: quando forse per effetto delle tensioni nella società italiana che diedero avvio ad una sorta di “inverno del nostro scontento” che dura tuttora, si riversarono sulle canzoni  secchiate di pianto e monsoni di spasmi e  lamenti. (Fu Claudio Baglioni ad inaugurare la stagione delle ugole bagnate di pianto e delle lacerazioni intime e soffocate: a lui si può ricondurre una vera e propria  scuola di “piagnoni” nazionali dal singhiozzo facile che arriva  fino a Luca Carboni, Alessandro Baldi, Marco  Masini, e dalla quale ancora non ci siamo ripresi: “Tu come staaai”, eh! come sto…)

Dell’ascolto all’italiana. Non udire, ma “traudire”

L’ascolto della musica “all’italiana” è uno dei modi tipicamente nazionale di esperire il fatto musicale. Com’è questo ascolto? Assolutamente simpatetico ed empatico, ossia non mediato da atteggiamenti  mentali di tipo  culturale. Fu Stendhal il primo a notarlo, alla Scala. Lo racconta in “Roma, Napoli, Firenze”. Notò che tutti gli spettatori alla Scala non stavano attenti allo svolgersi dell’azione drammatica che si svolgeva in scena. Ognuno faceva quello che voleva: chiacchierava, mangiava “pezzi duri” (gelati) , amoreggiava. Poi, all’improvviso, all’appressarsi dell’aria – che tutti presagivano nell’aria (è il caso di dire), lasciavano le loro “occupazioni” e nel più totale e improvviso silenzio gustavano l’aria o la cavatina che fosse. Considerazioni analoghe ebbe a fare quell’eccentrica signorina vittoriana che studiò la vita musicale italiana del ‘700 sotto falso nome maschile di Vernon Lee (al secolo si chiamava Violet Paget). Sulla scia del viaggiatore inglese  Charles Burney, la Lee ebbe a studiare il particolare rapporto empatico degli italiani con la musica. Osservò che la musica dei francesi era una festa per gli occhi e un inferno per gli orecchi, mentre i tedeschi trasformavano un piacere in dovere ed eccoli tutti compunti e seriosi davanti alla rappresentazione musicale. E gli italiani? Non sospendevano la vita per godere della musica. No, la musica viveva con loro, era un fatto naturale della vita: potevano dedicarsi  a qualsiasi occupazione, ed ecco che al momento giusto prendevano in mano uno strumento e lo suonavano d’impeto. Come dirà Mario Praz (in “Bellezza e bizzarria), raccogliendo le confidenze di Violet Paget, si potrebbe dire che gli italiani non “udivano” la musica, ma la “traudivano”: era come se fossero in un’altra stanza, a fare tutt’altro, mentre nella stanza accanto si suonava il piano. Da queste sue osservazioni di natura antropologica la Violet Paget trasse poi saggi di estetica (“The beautyful”) oltre che il suo volume di studi “La vita musicale nell’Italia del Settecento” (“Studies of the Eighteenth Century in Italy”). La sua estetica poggia proprio sul principio dell’Einfühlung ossia quell’empatia che gli sembrò  contraddistinguesse gli italiani nell’esperire il fatto estetico e musicale.

Questo ascolto all’italiana, certamente, non è proprio un gran complimento: poggia sul principio che gli italiani, non avendo adeguate conoscenze culturali (musicali), facciano affidamento sui dati del senso e dell’immediatezza; come anche sullo stereotipo dell’italiano che entra d’emblée in sintonia con lo strumento (magari il mandolino). Ma se cogliesse almeno in parte il nostro modo di ascoltare musica e di farla, sarebbe da non prendere almeno in considerazione?

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I letterati,  i cineasti e la canzonetta

Arbasino sosteneva che  “Il cielo in una stanza” è superiore a qualsiasi sinfonia minore di qualsiasi periodo… Pasolini diceva che le canzoni hanno “un valore obiettivamente poetico” (cioè che  se non sono proprio poesia ne hanno il pieno valore: quella di Pasolini è la più ampia apertura di credito). Lo stesso Pasolini oltre che Calvino offrirono i propri versi da destinare alle canzoni. Nei film degli anni sessanta le canzonette balneari si ascoltavano usualmente in  sottofondo, ne “La bella da Lodi” di Missiroli (1963) dal libro omonimo di Arbasino, ne “Il sorpasso” di Dino Risi  e in altri più impegnati come “L’eclisse” (1962) di Michelangelo Antonioni accompagnato da “Eclisse Twist” cantata da Mina. Anche Visconti fu tra i primi mostri sacri del cinema a mettere in sottofondo una canzonetta dell’epoca (“La mia solitudine sei tu” cantata  da Iva Zanicchi, nel film …”Ritratto di una famiglia in un interno”, 1972) Ma è con Nanni Moretti che la canzonetta cantata in coro da una famigliola prima della tragedia (“Insieme a te non ci sto più”, “La stanza del figlio”, 2001, e la stessa canzone era presente anche in “Bianca”, 1984) o dal protagonista per tirarsi di impaccio da un assedio di giornalisti (“E ti vengo a cercare”, “Palombella rossa”, 1989) o un’altra ancora per “staccare” violentemente da una situazione d’impasse (“Ritornerai” di B. Lauzi sempre in “Bianca”, 1984). Il fenomeno si è attestato ormai a consuetudine, come dimostra il bel film di Muccino “Ricordati di me” (2003) (“Almeno tu nell’universo “, vecchia canzone di Mia Martini, ripresa da una nuova interprete che ahimè non raggiunge il potente pathos canoro della prima interprete). Nel film “Ladro di bambini” di Gianni Amelio la canzone di Gianna Nannini “Fotoromanza” che fuoriesce dagli altoparlanti di un gelataio e si irradia in una giornata piena di luce meridionale, ha la funzione narrativofilmica  di “staccare” dopo una serie di sequenze buie e angosciose ambientate a Milano e in una periferia romana senza speranza.

I cantautori

Il termine di cantautore venne coniato da Maria Monti, Gianni Meccia, Enrico Polito, Rosario Borelli della Ricordi nel 1960. Forse anche per far rima con urlatore, che era il termine col quale si designarono alla fine degli anni ’50 i cantanti che urlavano all’americana: Celentano, Gaber, Mina. Tutto avvenne quando alla Ricordi, Nanni Ricordi e Franco Crepax, decisero di affiancare alla casa editrice anche un’etichetta discografica. Si videro affluire sui loro tavoli centinaia di canzoni eccentriche per l’epoca e decisero di farle cantare agli autori stessi col nome da poco inventato. I cantautori erano Paoli, Bindi, Tenco, De André, Lauzi, Endrigo. La notizia è riportata da “Il Musichiere” del 17 settembre 1960. Era nato un vocabolo  nuovo e un nuovo modo di cantare.

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Vedi anche su questo sito e dello stesso autore. “Segreti pop – La musica armata

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