Geopolitica

Le canzoni più significative degli ultimi anni della ex Jugoslavia

29 Aprile 2019

Verso la fine degli anni Settanta, nelle principali città dell’allora Jugoslavia, cominciavano a suonare alcuni fra coloro che sarebbero diventati i più significativi artisti dei decenni successivi. Nel 1977, nei sobborghi di Zagabria, entrava in attività il Prljavo Kazalište, la più importante band croata degli anni Ottanta e Novanta. A Belgrado, nell’anno successivo, nasceva la Riblja Čorba, un gruppo che in seguito avrebbe sposato la più marcata ideologia nazionalista serba, ingaggiando un “duello” con il croato Jura Stublić, riguardo una sua canzone del 1992, nella quale parlava della guerra. Nella regione serba della Vojvodina, vicina al confine con l’Ungheria, dove è forte la presenza magiara, cominciava la sua carriera Djordje Balašević: una voce originale e diversa che ha contestato apertamente la guerra e le sue divisioni. A Sarajevo, nel 1981, è stato fondato il Zabranjeno Pušenje, guidato da Nele Karajlić: un personaggio polivalente, che si è dedicato anche alla carriera di comico, dando vita alla Top Lista Nadrealista, uno spettacolo televisivo di stampo nazionalpopolare. Nello stesso periodo cominciava a registrare le prime canzoni Mugdim Avdić Henda, che è riuscito a mescolare con successo la musica pop rock con le note tipiche delle canzoni folk sarajevesi, risultando anche un grande interprete degli anni dell’assedio della città.

Ho scelto di parlare di questi artisti non perché siano stati i migliori in assoluto o i più celebri, ma perché penso che alcuni loro brani possano essere rappresentativi di alcune tendenze sviluppatesi in una società che fra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta ha vissuto delle trasformazioni profonde, culminate nel punto di rottura della guerra, che ha cambiato il modo di pensare e di percepire le cose della sua popolazione. Non ho considerato alcuni gruppi e artisti molto famosi, come la Crvena Jabuka o il Parni Valjak, perché penso che non abbiano rappresentato tanto incisivamente questi mutamenti, restando nei limiti della canzone leggera.

L’ULTIMA ROSA CROATA

Il Prljavo Kazalište (“Il teatro sporco”) è forse il gruppo ex-jugoslavo che ha raggiunto le vette artistiche più alte, riuscendo a farsi interprete del rinato sentimento nazionale croato degli anni Ottanta e adattando perfettamente la propria musica ai temi trattati. Dopo l’esordio in perfetto stile punk, a cavallo fra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, i ragazzi del sobborgo di Dubrava sono lentamente passati a toni tendenti più al pop rock, riuscendo a creare dei testi molto interessanti. Già nel 1985, il gruppo ha pubblicato una bellissima canzone d’amore, Ma kog me Boga za tebe pitaju, che anticipava lo stile che nel 1988 avrebbe caratterizzato uno dei più grandi successi della musica croata: Ruža hrvatska (“La rosa croata”). Questa canzone, in origine, portava il titolo Mojoj majci (“A mia madre”) ed è stata scritta per la morte della madre di Jasenko Houra, il chitarrista della band. Il gruppo ha più volte negato che il testo avesse connotazioni politiche, ma la sua pubblicazione alla vigilia della guerra, le parole particolarmente adatte a commemorare qualsiasi persona e la possibilità di intendere la “rosa croata” come la madrepatria croata hanno portato questo brano a diventare un inno alla sofferta strada verso l’indipendenza del Paese. Questo fatto è confermato anche dal silenzio e dalla non partecipazione del pubblico serbo all’esecuzione del pezzo durante i concerti tenutisi a Belgrado nel 2012 e 2016. Una buona traduzione del brano si può trovare qui.

Altri brani, scritti durante gli anni Novanta, portano però una chiara impronta patriottica, inevitabile data la situazione di guerra sofferta dai componenti del gruppo, come da tutta la popolazione del Paese. Il testo straziante e bellissimo di Lupi petama, del 1993, canta il dolore per la perdita degli amici durante il conflitto: “Ci sono giorni in cui non so che fare, perché non mi rallegrano senza di voi le partite alla domenica. Quando cala la notte, vi chiamo per nome, ma voi siete stati coperti dalla bandiera e dal muschio”. Al contempo, sono presenti il sogno della fine della guerra (“Un giorno quando questa guerra finirà…”), l’attenzione per i più poveri (“Dio, proteggi i nostri poveri, perché i ricchi in qualche modo trovano sempre il modo di prendersi cura di sé”) e l’ostinata idea di orgoglio nazionale, legata soprattutto al valore della bandiera, un elemento continuamente e morbosamente messo in mostra ancora oggi dai croati (“Bacio la bandiera e lascio cadere una lacrima sincera”).

C’è anche un sentimento religioso forte presente nelle canzoni del gruppo, che si può notare in Dodji sada Gospode (“Vieni ora Signore”), oltre che in Radio Dubrava (“Sono le sette: alzati, fatti la barba e prega”). Radio Dubrava è il pezzo principale dell’omonimo album del 2003, in cui il gruppo apre uno spiraglio anche sulle proprie visioni politiche. L’antipatia nei confronti del regime comunista è ribadita nel brano Drugovima više ja ne vjerujem (“Io non credo più ai compagni”), che è introdotto da un’aperta critica al partito comunista (“Quando sei felice e vuoi tutta la felicità per te, iscriviti al partito”), seguito da un polemico riferimento a Kumrovec, città natale di Josip Broz Tito (“Chi non ha studiato la scuola a Kumrovec, non è entrato nemmeno nel consiglio comunale”). Sempre in Radio Dubrava è sottolineata la lontananza da ogni posizione politica estrema (“Né rosso, né nero”).

Il Prljavo Kazalište è un gruppo che in Croazia mette d’accordo tutti, in virtù anche della sua importanza nell’interpretare e dare voce ai sentimenti e alle sofferenze del popolo croato in quelli che sono stati gli anni più duri. Forse un minore riconoscimento è tributato al leader del gruppo Film, Jura Stublić, che ha avuto una sorta di tenzone con il cantante serbo della Riblja Čorba (“Zuppa di pesce”), Bora Djordjević.

VECCHI AMICI

Stublić, nato a Sarajevo ma cresciuto a Zagabria, ha pubblicato nel 1992, in piena guerra, il brano E moj druže beogradski (“O mio amico di Belgrado”), cui è seguita la risposta per le rime di Bora Djordjević con E moj druže zagrebački (“O mio amico di Zagabria”).

Nello spot ufficiale, Jura Stublić percorre su un carro armato, cantando, un tratto dell’autostrada che unisce Zagabria e Belgrado, che prima della guerra era chiamata Autoput bratstva i jedinstva (“L’autostrada della fratellanza e dell’unione”), a sigillare l’amicizia fra il popolo croato e quello serbo. Anche i primi versi del brano ripercorrono nella memoria la stessa strada: il cantante croato racconta dei suoi amori giovanili a Belgrado e Novi Sad (Serbia), ricordando con una vena nostalgica i nomi dei paesini attraversati, che risorgono nella memoria avvolti in un alone positivo, derivante dal ricordo dell’amore passato. L’amicizia fra serbi e croati è sottolineata anche nel testo, oltre che nello spot, in due versi: “Sapevamo tutte le canzoni serbe; cantavamo, prima della guerra, ‘Salve Vergine Maria, regina dei croati'”. In queste ultime parole è perfettamente riflessa l’importanza della religione cattolica nel nuovo sentimento nazionale croato. Si tratta di una religiosità spesso sinceramente sentita in una larga fetta della popolazione, ma che, entrando a far parte di un sentimento politico e nazionale, si trasforma, riducendosi talvolta nel significato e non rispecchiando pienamente il messaggio cattolico, ma torcendolo alle proprie necessità: l’esempio più estremo di questo fatto è l’ideologia ustascia, propria dei nazionalisti croati più accesi, che in passato sono stati un’arma in mano nazista, i quali rimarcano l’importanza del loro presunto sentimento religioso.

Stublić poi presenta la guerra, indicando prima i luoghi più colpiti della Croazia e poi raccontando un inventato ma possibile incontro fra lui e l’amico di Belgrado sul campo di battaglia. L’amico non lo riconosce e spara. Questo gesto è subito ricondotto all’idea, più generale, che siano stati i serbi a cominciare la guerra (“Ti lascerò sparare per primo: voi siate sempre i primi”). Seguono altri due spari che non vanno a segno, prima che il soldato croato, identificabile con l’autore stesso del testo, raccontato in prima persona, controbatta. Il gesto del croato è accompagnato da un sentimento di conflitto interiore, dovuto alla necessità di sparare a una persona considerata amica (“Non prenderò la mira e pregherò Dio di sbagliare, ma ti colpirò”). Ne segue il compianto dell’amico (“Come ero triste, perché ho perso un amico”), che vuole riportare il discorso sull’insensatezza del conflitto, dopo aver, però, implicitamente ribadito la “guerra giusta” dei croati e la loro vittoria.

Bora Djordjević ha risposto con un testo composto sulle stesse note della canzone di Stublić, di livello davvero infimo, in cui si mescolano allusioni sessuali sulle donne croate e minacce di una nuova guerra (“Eccoci di nuovo in rapina da voi: noi vi rapineremo e voi piangerete”), seguite da un riferimento ai legami dell’esercito ustascia con il nazismo e a quelli della Croazia con Germania e Austria (“Tornerete a parlare tedesco”). Bora ha sempre dichiarato aperte simpatie verso il movimento ultranazionalista serbo dei četnici, che hanno commesso tanti crimini contro la popolazione civile croata e bosniaca durante la guerra, quindi le sue parole non sorprendono più di tanto. Nel 2004, per un breve periodo, Djordjević è stato persino consulente del Ministero della Cultura della Serbia.

LA COLPA È NOSTRA

Una voce diversa e molto più bella è quella di Djordje Balašević, originario della Vojvodina, una regione del Nord della Serbia, dove è presente una forte minoranza ungherese. Balašević è nato a Novi Sad, da padre serbo e madre croato-ungherese, in un contesto di maggiore multiculturalità rispetto a Belgrado, dove ha continuato la sua carriera. Ha raggiunto la notorietà grazie a diverse canzoni di stampo più riflessivo, come Priča o Vasi Ladačkom (“La storia di Vasa Ladački”), che parla di scelte di interesse invece che di amore e di una triste vita finita in fondo all’ennesimo bicchiere di alcol. Sono molto belle anche Neki novi klinci (“Certi nuovi ragazzi”), concentrata sul passare del tempo e sui ricordi di una vita in via Jovan Cvijić (dove Balašević vive ancora oggi), e Drago mi je zbog mog starog (“Sono felice per mio padre”), che racconta la vita di un calciatore che ha buttato via il proprio talento, raccontando così anche la storia di tanti calciatori provenienti da questa regione (“Siamo fatti così: una montagna di denaro ci guasta facilmente. E non devi dribblare o passare, ma solo venderti bene”).

Balašević si è opposto senza compromessi all’ondata di nazionalismo che ha travolto i Balcani dagli anni Ottanta in poi, alla guerra e al regime di Slobodan Milošević. Per questo oggi è benvenuto in ogni città della ex Jugoslavia ed è un’icona per tutti coloro che credono nella possibilità di ricostruire dei rapporti interetnici di fiducia e amicizia.

Uno dei suoi brani più importanti si chiama Krivi smo mi (“La colpa è nostra”), in riferimento alla guerra dei primi anni Novanta. L’autore fotografa perfettamente alcuni fra quelli che sono stati gli uomini decisivi, trovatisi in una situazione di potere in quel momento, perché quella guerra che sembrava impossibile divenisse realtà: “Cosa ne sapevano i generali e i maggiori dell’esercito? Sapevano solo dire di sparare, ma loro non erano i peggiori”. Non erano i peggiori perché i peggiori “eravamo noi che ci siamo tolti dalla loro strada”. La colpa, in sostanza, è di quelli che non volevano la guerra, della parte più sana di una società profondamente malata, che, però, non ha combattuto contro la propria malattia: un’idea certo non nuova, ma che coglie una certa passività della società jugoslava che, nonostante un decennio di conflitti politici su base nazionale, non si aspettava che le cose potessero degenerare fino a un punto così tragico.

ERO GIOVANE E INNAMORATO

Nel 1991, la guerra era già scoppiata in Croazia, ma tutti erano sicuri che c’era una città in cui il conflitto non si sarebbe mai potuto propagare: Sarajevo era troppo multiculturale e troppo unita per poter divenire teatro di battaglia. Può essere interessante un verso del poeta Izet Sarajlić, del 1965, il quale diceva che “solo la guerra non suona/quando entra nelle case della gente” (la traduzione è tratta dalla pagina 47 dell’edizione Einaudi della bella raccolta “Chi ha fatto il turno di notte“). E fu proprio così, senza che nessuno avesse suonato, che la città si trovò i carri armati alla porta, nell’aprile 1992.

Un tema non sempre debitamente sottolineato quando si parla di questo assedio (e non solo) è quello riguardante le vite spezzate dei civili sopravvissuti al conflitto: l’infanzia negata ai più piccoli, gli anni più belli rovinati ai giovani o il riposo della vecchiaia impedito ai più anziani. Delle giovinezze interrotte canta Mugdim Avdić, detto Henda, un cantautore non molto celebre né largamente conosciuto, che però è stato un grande interprete dell’assedio di Sarajevo, che ha vissuto in prima persona. L’inizio di Sviraj mi, sviraj brate (“Suona, suona per me, fratello”) esprime questa tragedia, condivisa da un numero altissimo di persone in tutti i territori coinvolti dalla guerra: “Era giovane e innamorata, era felice e amata, ma il ciclone della guerra ha portato via tutto e l’ha spinta sotto un cielo nemico”. È la storia di una ragazza, ma è anche la storia di tante ragazze e di tanti ragazzi: è la storia di Henda stesso. Nel seguito della canzone compare l’elemento della musica, che riporta quasi alla realtà i sogni ormai infranti, permettendo una fuga verso il passato e verso un presente che non c’è: “Il suono della fisarmonica mi riporta la nostra giovinezza e i nostri sogni: suona, suona per me, fratello, portami nei miei luoghi, portami indietro Sarajevo e la vecchia buona compagnia”. Nelle ultime parole emerge l’idea di una Sarajevo che non sarà mai più la Sarajevo di una volta. Henda aveva senz’altro ragione: la Sarajevo odierna non è la Sarajevo di prima e, in fondo, è giusto che sia così, dopo tutto quello che è successo. Nelle Città invisibili di Italo Calvino, parlando di Maurilia, il narratore dice che “talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute”: questo discorso, se non portato agli estremi limiti, può valere, in parte, anche per Sarajevo.

Sarajevo non è più la città che era prima anche perché alcuni dei protagonisti degli anni Ottanta hanno deciso di abbandonarla e rinnegarla. Un esempio di ciò è la parabola di Nele Karajlić, nome d’arte di Nenad Janković.

TUTTO QUESTO NON FINIRÀ BENE

Nele Karajlić è stato un ottimo interprete della cultura popolare che caratterizzava la città di Sarajevo nella ex-Jugoslavia. Il suo varietà, chiamato Top Lista Nadrealista, ha presentato in chiave comica molti dei luoghi comuni riguardanti la città e la sua popolazione, cogliendo anche in anticipo certe tendenze interne alla società: in un episodio, per esempio, è proposto un telegiornale inventato, proiettato nel futuro 1995, dato che il programma è stato registrato negli anni Ottanta, in cui è presentata una Jugoslavia divisa in due, dove la città di Sarajevo, sul modello di Berlino, è separata da un muro fra Est e Ovest. È strano ascoltare oggi queste parole, sapendo che la Jugoslavia unita non esiste più e che Sarajevo è davvero divisa fra la parte Est, in mano al governo della Repubblica Serba di Bosnia-Erzegovina, e la restante parte, controllata dalla Federazione di Bosnia-Erzegovina: manca soltanto il muro…

Nele Karajlić ha avuto, evidentemente, la lucidità per cogliere quelle tendenze che sono sfuggite alla “società sana” di cui parlava Balašević in Krivi smo mi. E anche Karajlić è stato un musicista, cantante del Zabranjeno Pušenje (“Vietato fumare”), un gruppo di cui ha fatto parte anche il controverso Emir Kusturica. Anche in questo campo, Nele ha dimostrato la propria lucidità, partecipando alla composizione del testo di Kanjon Drine (“Le gole della Drina”), insieme al grande Davor Sučić. Il brano pubblicato nel 1989 racconta di tre ragazzi che, dopo avere fatto autostop, viaggiano con un vecchio camionista lungo il fiume Drina, fino alla montagna Romanija, nella parte Est della Bosnia-Erzegovina. Le parole del vecchio annunciano la guerra imminente (iniziata poi tra il 1991 e il 1992), mentre la strada porta il camion proprio attraverso alcuni dei principali luoghi del conflitto, accanto al fiume Drina, che divide la Bosnia dalla Serbia e che a breve diventerà teatro di uno scontro sanguinoso e terribile. Non c’è quasi nulla di nascosto nelle parole della canzone, che annunciano senza mezzi termini ciò che a breve sarà triste realtà. Vale forse la pena di riportare la traduzione intera di un brano che mostra come la guerra non sia comparsa, in realtà, da un giorno all’altro, ma che certe linee e tendenze potevano essere viste e sono state viste da un occhio lucido:

 

Le gole della Drina sono davanti a noi,

facciamo autostop Mufa, Kiki e io.

La neve si sta sciogliendo, la strada è vuota,

si è fermato un vecchio camionista.

 

Le montagne nude e rocciose ci spezzano la strada,

il capo guida mentre è visibilmente di cattivo umore,

più triste che arrabbiato.

Riduce la velocità, accende una sigaretta,

gli si illuminano gli occhi nel buio.

A bassa voce il capo dice:

“Bambini, tutto questo non finirà bene,

perché tutto va all’indietro.

Viviamo divisi in tribù, come gli Apache.

Dove andremo, bambini, io e voi?

Il nostro cuore batte per tutti loro.

Svegliami, è solo un brutto sogno:

meno sai, ragazzo, e meno sarai infelice.”

 

Le montagne nude e rocciose ci spezzano la strada,

il capo guida mentre è visibilmente di cattivo umore,

più triste che arrabbiato.

I “grandi” si sono spartiti i loro regni,

i bambini sono evacuati con gli aerei

e io mi sento fuori posto,

come una zebra alle isole Brioni.

 

Voi, bambini, vi divertirete più di tutti,

perché siete abituati ad andare a letto presto:

tra poco tutti avremo il coprifuoco alle nove.

Svegliami, è solo un brutto sogno:

meno sai, ragazzo, meno sarai infelice.

 

Le gole della Drina sono dietro di noi,

davanti a noi c’è la Romanija.

La neve si sta sciogliendo,

niente fermerà l’arrivo di una nuova primavera.

 

Nele Karajlić è scappato da Sarajevo pochi giorni prima che l’assedio avesse inizio e si è rifugiato a Belgrado, dove ha iniziato una nuova vita. Alcune dichiarazioni sulla sua città non gli sono state perdonate dai concittadini, fra cui quella in cui affermava di essere stato cacciato da Sarajevo perché ortodosso e che per questo non vi avrebbe mai più fatto ritorno: diverse migliaia di ortodossi, però, sono rimasti, per scelta, nella città assediata. Fra le altre cose, Karajlić ha spiegato che Sarajevo non è più la città di una volta, portando agli estremi limiti questo discorso, dato che, secondo lui, nell’odierna capitale bosniaca non ci sarebbe la possibilità di esprimere un’opinione diversa dal senso comune. Questo voltafaccia ha segnato l’inizio della decadenza di Nele, che da allora ha perseguito una trascurabile carriera musicale, oltre che il tradimento di se stesso e della città in cui è nato. Karajlić è tornato brevemente a Sarajevo nel 2015, con un’ampia scorta di sicurezza al seguito, a causa delle minacce che aveva ricevuto nei giorni precedenti.

 

 

(L’immagine di copertina è stata realizzata da Jack Hamilton.)

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