Musica
L’ascolto come utopia della conoscenza
La musica non cambia il mondo. Ma può dare voce al desiderio di cambiarlo. Del resto nemmeno la poesia, la letteratura, il teatro cambiano il mondo. Raccontano il disagio di abitarlo oppure – raramente – la gioia di farne parte. La musica di Luigi Nono questo desiderio l’ha cantato fin dall’inizio. Dai Cori di Didone al Prometeo. Sono passati pochi mesi meno di quaranta anni dalla prima esecuzione a Venezia, nella chiesa di San Lorenzo, il 25 settembre 1984, diretta da Claudio Abbado, del Prometeo. Tragedia dell’ascolto. E sono cento anni dalla nascita del compositore. Un’emozione non raccontabile il riascolto. Seduto sulla mia poltrona, ascoltavo e scrivevo note, riflessioni. Che qui, corrette, trascrivo. L’immensa struttura di legno progettata da Renzo Piano è stata sostituita da una impalcatura metallica: il suono, rispetto al colore pastoso della rifrazione sul legno, si espande più netto, distinguibile, preciso, e il contrappunto si ascolta evidente come se lo si leggesse sulla partitura. Si pensa al madrigale drammatico. Al riverbero della luce, lungo le calli, dall’acqua dei rii. Il suono, come la luce, si rifrange e torna indietro. Tutto il Prometeo è come un lungo, interminabile Adagio. Ma di suoni delicati, a mezza voce, è raro il grido. Si pensa all’Adagio dell’incompiuta Decima Sinfonia di Mahler. O all’op. 132 di Beethoven, un quartetto intenso e ambiguo, con due finali, una fuga, il primo finale, e un secondo finale, che sostituì il primo, Allegro appassionato, a seconda di quale si suoni alla fine, il quartetto acquista un significato diverso, d’irrisolto conflitto, con la fuga, di eroico furore, quasi un messaggio utopistico, con l’allegro appassionato.
L’Adagio molto, che è il terzi di cinque movimenti, ha un’indicazione assai lunga, esplicativa del suo senso e del modo di eseguirlo: “Heiliger Dankgesang eines Genesenen an die Gottheit, in der lydischen Tonart. Molto adagio”, nella traduzione dello stesso Beethoven “canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito in modo lidico. Molto adagio”. Di Beethoven, di questo Beethoven, Nono sembra riassumere e continuare il furore utopico. La musica non cambia certo il mondo, ma è forse l’arte che meglio realizza il desiderio di cambiarlo. Il linguaggio è una operazione condotta su/con il suono arbitraria, convenzionale, attribuisce significato all’insignificante, a ciò che in sé non è predisposto a significare nulla (ma ne siamo sicuri?), la musica, che anch’essa opera con, sul suono, sembra saltare questa convenzionalità per toccare la fonte generativa del significato, il punto in cui il suono trasmette non tanto un’emozione quanto un’idea. Ce ne accorgiamo quando qualcuno emette un’interiezione: ah! oh! hmmm! suoni in sè privi di significato, eppure la loro intonazione ci trasmette un significato. Non a caso Diderot ipotizza che la musica possa essere una stilizzazione dell’interiezione. Nono sembra volere scendere in questi abissi. Gli basta una sillaba, una vocale e la musica si fa matrice dalla quale il suono estrae significazione: il linguaggio è solo una delle forme con cui si può comunicare un messaggio, la sillaba lo della parola logos basta a trasmettere il campo di idee e di emozioni che questa parola ha trasmesso nel corso dei secoli, a ricordarci la storia della trasformazioni di questo campo, che nella storia del pensiero occidentale la parola ha via via manifestato. In principio era il Logos, scrive Giovanni nel quarto Vangelo. Quale principio? e quale logos? la parola, il discorso, il calcolo, il linguaggio? o tutte queste cose insieme? e – in più – o in principio – un sinonimo della divinità? Torniamo a chi ha sistemato una volta per tutte la questione, Aristotele. Definisce l’uomo “l’animale bipede che possiede il linguagio”. Boezio, nella traduzione latina, interpretò la parola come “ragione”. Da qui la definizione dell’uomo come animale “razionale”, che dura fino ad oggi. Il termine greco definisce un campo più vasto di significati, dalla “parola”, appunto, e Giovanni, infatti traduce Verbum, discorso, calcolo, linguaggio. La ragione, insomma, per un greco è qualcosa che ha a che vedere sia con il calcolo che con la parola. È il fuoco che Prometeo consegna agli uomini.
Beethoven, nel balletto Le creature di Prometeo, ideato insieme al coreografo Salvatore Viganò, porta sulla scena questa conquista della razionalità, e con essa dell’ordine sociale. Il fuoco ne è il simbolo. Il cristianesimo aveva degradato le figure mitologiche a démoni, come ancora leggiamo nella Divina Commedia (Caronte, Gerione, ecc.), e Prometeo addirittura fu identificato con la figura di Satana, Lucifero, il Portatore del fuoco. Goethe, prima, in un’ode magnifica, e Beethoven poi, restituisce invece a Prometeo l’originaria funzione di Titano che salva l’umanità. Entrambi probabilmente attingono alla tragedia Prometeo incatenato, attribuita a Eschilo, ma che oggi si sa scritta da un altro drammaturgo a lui di poco posteriore. In ogni caso dal Prometeo incatenato sono tratte alcune delle frasi o delle singole parole – Io, per esempio, la sventurata preda di Zeus già in procinto di essere trasformata in vacca. Nella tragedia si confessa con l’eroe incatenato. E Prometeo le rivela il suo destino e come sarà liberata dall’assillo che la perseguita e dalla sua sventura. Il mito ebbe una vasta ripercussione nei poeti dello Sturm un Drang e nei primi poeti romantici inglesi: Percy Bysshe Shelley srisse un dramma ch’è la continuazione di quello pseudoeschileo, il Prometeo liberato. Sia Shelley sia Beethoven leggono, illuministicamente, nel mito di Prometeo una storia di liberazione dell’umanità dalla schiavitù delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali. La danza che chiude il balletto, che non è un minuetto, ma una danza tedesca, la danza della borghesia, è da Beethoven ripresa come tema delle variazioni che costituiscono il Finale della Sinfonia Eroica. Sottotraccia, nelle innumeri citazioni che costellano la partitura di Nono, è un idea sottesa anche al significato dell’opera di oggi. La musica comincia pianissimo e procede per tutta la durata di questa “tragedia dell’ascolto”, come si è detto, su toni intimi, sommessi, raramente s’innalza al grido. Si pensa alla polifonia fiamminga del Quattrocento, e soprattutto a Ockeghem, ai suoni tenuti, che si prolungano in interminabili fasce sonore. All’iniziale Requiem aeternam della Missa por defunctis. Le impalcature metalliche sono disposte a semicerchio intorno al pubblico, il suono dunque avvolge gli ascoltatori, proviene dai lati della chiesa, e sono elettronicamente diffusi, modificati. L’esperienza del suono diventa allora quasi l’esperienza di una cattura primordiale del linguaggio, non ancora significante di cui compaiono i lacerti, le sillabe, o le parole dette dagli attori. “Tragedia dell’ascolto” nel senso che non è l’azione visiva, il vedere personaggi che agiscono, a costruire il dramma, ma è il suono stesso che si fa dramma interiore di chi ascolta. Se qualcosa è visibile, è lo stesso ascolto che nel cervello crea le figure analogiche, le memorie, le associazioni, che ciascuno può spontaneamente elaborare dallo stimolo di un suono strumentale, di una sillaba emessa dal soprano, o dal coro via via che la musica viene eseguita. L’utopia sta nel fatto che questo lento scorrere della musica se da una parte compie lo sforzo di cancellare la percezione del mondo per interiorizzarla all’interno di chi l’ascolta dall’altra interviene nella percezione con una tale intensità che pur manifestandosi solo come percezione sonora fa del suono un’interpretazione del mondo, di tutto il mondo.
Il percorso sinuoso, ambiguo, dei suoni si modella come un uguale percorso ambiguo, sinuoso dei pensieri, e improvvisamente, quasi come per un’illuminazione, il suono in-significante si fa significato, significa appunto il processo dei pensieri, che prima di manifestarsi comprensibili, colpiscono per come accendono sensazioni, emozione alle quali a poco a pco riusciamo ad attribuire un significato, se non altro quello dello scorrere del tempo. E la musica è tempo, è misura della scorrere del tempo. Viene in mente che Aristotele dichiara inesistente il tempo. Lo percepiamo perché abbiamo sensazione del mutarsi e muoversi delle cose, del crescere di una pianta, della rotazione dei pianeti e delle stelle nel cielo: il tempo, dunque, è – per noi – la misura di questo movimento, in sé, senza la nostra percezione del movimento, non sarebbe niente. Newton criticò aspramente questa idea aristotelica del tempo, e assolutizza il tempo in fenomeno reale, oggettivo. Einstein ritornò invece all’intuizione di Aristotele, ma senza negare la verità dell’affermazione di Newton: dipende da quale prospettiva si ha percezione o si discute del tempo.
Sappi:
pur vedendo non vedemmo
pur udendo non udimmo
gli uomini
effimeri
larve di sogno
sotto terra abitavano
come formiche
finché IO TE, figlio di Teti Prometeo
mostai loro inchioderò questa speranza vuoi dare ai mortali:
Aurora e Tramonto liberarsi dal dio?
San Lorenzo
Un frammento dalla prima Isola. L’opera è come un arcipelago in cui ci sono cinque isole (ridisegno degli episodi della tragedia greca e degli atti della tragedia classica e barocca). Le parti corali sono chiamate, come nel teatro antico, stasimi. Non sono fantasie di filologo, ma intento di ricostruire una memoria del dramma, di ciò che è, nella storia dell’Occidente, un dramma. Cioè: un’azione. Massimo Cacciari, che è l’autore, o piuttosto chi collaziona i testi: da Eschilo (Prometeo incatenato, attribuito) a Walter Benjamin (Sul concetto di storia), da Euripide (Alcesti) a Goethe (Prometeo), da Erodoto a Esiodo (Teogonia), da Hölderlin (Canto del Destino) a Pindaro (Nemea VI) da Schoenberg (Moses und Aaron e La Legge) e Sofocle (Edipo a Colono), Cacciari prepara un cammino sul quale la musica può costruire un altro messaggio, quasi una voce interrogante che affida all’ascoltatore lo scioglimento degli enigmi verbali e musicali dell’ascolto. Scoprirà, così, l’ascoltatore, che di ogni enigma non esiste una sola risposta, ma quante nell’atto di ascoltare si affacciano alla mente. La musica si fa magma che racchiude nel suono tutti i possibili significati dell’esistere, non è detto univoci, ma ciascuno diverso per ciascuno. In somma, un invito a sperimentare l’ascolto come percezione di un accadimento che non è un’azione nel senso con cui intendiamo un’azione teatrale, bensì è un pensiero che agisce nel tempo, che è esso stesso l’azione del tempo. L’ambiguità del messaggio si fa sinonimo dell’unico messaggio che nella vita si possa veramente esperire: l’esistere. Se la tragedia del mondo non è salvata dalla musica, la musica però ci racconta che appunto la tragedia del mondo non può essere salvata. La tragedia può solo essere annunciata, denunciata, detta, dichiarata appunto tragedia, perché l’ambiguità del reale non è ambiguità di denuncia, ma dell’ampiezza di ciò che si deve denunciare. Quando la voce tace, il suono muto, senza parole, espone la propria nudità come scandalo di dire senza le parole.
Musica e linguaggio usano la stessa materia: il suono. Che può farsi anche citazione, memoria. E nel Prometeo di Nono ne fluttuano molte. O come esplicite, anche se mascherate, citazioni, o come riferimento, ricordo, a ciò che potrebbe essere citato, a musiche di cui ciascun ascoltatore, individualmente, conosce lui solo la storia. Nel 1984 non era ancora caduto, non era ancora stato smantellato il muro di Berlino. Sembra ieri, ma invece ci separano 40 anni dal Prometeo, 35 dalla caduta del muro. Viviamo in un altro mondo. Totalmente diverso, per quanto guerre e catastrofi sembrino volerci ricondurre a quella tragedia. Invece la tragedia che viviamo è un’altra. Probabilmente l’idea che non sia veramente una tragedia. Il Prometeo sta lì a ricordarci che lo è. Forse perfino più spaventosa di quelle già accadute. Basta non fingersi di credere di conoscere il reale. Ascoltarsi e ascoltare: ne siamo dentro fino al collo, ci piaccia o non ci piaccia. E potrebbe perfino ammonirci il coro dell’Edipo a Colono: il meglio è non essere nati. Nemmeno Edipo voleva ciò che gli accadde. Tuttavia gli accadde. La tragedia, la vera tragedia è proprio questa: rifiutarsi di vedere che accade, non ascoltare, e quando accade, accorgersi che non c’è scampo. Non so se pensieri simili passavano per la mente di Massimo Cacciari mentre collazionava i testi di duemila e cinquecento anni di poesia e pensiero occidentale, o nella mente di Luigi Nono mentre immaginava e componeva – alla lettera: metteva insieme – i suoni di questa gigantesca macchina musicale, una sorta di opera d’arte totale che sorpassa perfino le visionarie fantasie di Wagner o le enigmatiche mitologie di Stockhausen, ma che durante l’ascolto c’inchioda a questa insopprimibile sensazione della provvisorietà di stare qui e adesso, e c’interroga su dove vorremmo o potremmo costruire un esserci più stabile, meno fragile e meno evasivo di quello che stiamo vivendo.
Nello spazio nudo della chiesa di San Lorenzo, restaurata da Franco Pianon, la macchina di questo Prometeo, tragedia dell’ascolto, era diretta da Marco Angius alla testa del Coro del Friuli Venezia Giulia e dell’OPV – Orchestra di Padova e del Veneto, coadiuvato, come secondo direttore, da Filippo Perocco. Live electronics del Centro di Sonologia Computazionale – DEI dell’Università di Padova, organizzato, come nel 1984, da Alvise Vidolin, insieme a Nicola Bernardini e Luca Richelli. Soprani Livia Rado, Rosaria Angotti. Contralti, Chiara Osella, Katarzyna Otozyk. Tenore, Marco Rencinai. Voci recitanti, Sofia Pzdniakova, Jacopo Giacomoni. Come nel 1984, i flauti erano di Roberto Fabbriciani, la tuba, il trombone contralto, l’eufonio di Giancarlo Schiaffini. Roberta Gottardi, clarinetto, Carlo Lazari, viola, Michela Marco Rossi, violoncello, Emiliano Amadori, contrabbasso completavano il gruppo degli strumentisti. Produzione della Biennale di Venezia in collaborazione con la Fondazione Archivio Luigi Nono e TBA21 – Academy/Ocean Space.
In margine, o in calce, una riflessione. E oggi, che musica possiamo fare? Può esserci questa un modello, se non da imitare, almeno da incamminarci su strade non del tutto sconosciute? Credo di no. Quella stagione è finita. Riprodurla non solo sarebbe operazione di sterili epigoni, ma non affronterebbe con la stessa densità, intensità, problematicità la realtà che vuole rappresentare.
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