Musica

L’amore e la violenza. Il nuovo album dei Baustelle

15 Gennaio 2017

Finalmente sono riuscita ad ascoltare l’ultimo album dei Baustelle – L’amore e la violenza – in modo (quasi) decente. Premesso che sono una cultrice del gruppo, al punto che, quando sono venuti in concerto a Parma al Teatro Regio, ho fatto i salti mortali per conquistare i biglietti di un palco centrale per vederli per bene in religioso e composto silenzio estatico. Li seguo da quando facevano concerti alle feste dell’Unità in oscure campagne della provincia padana. I loro primi album – Sussidiario illustrato della giovinezza e La moda del lento – arrivavano in un periodo in cui il recupero di certe musicalità, di un certo tipo di dettato cantautoriale italiano (intimo ma non romantico, critico, ma non di militanza) era qualcosa di assolutamente non scontato. La moda del lento in particolare penso sia l’album più riuscito del gruppo: equidistante dall’ansia di autoaffermazione e dalla ricerca del “particolare estetico”. Un album ancora suonato e cantato per quello che vuole dire, per una certa urgenza di esserci e di comunicare qualcosa a un pubblico, gli “indipendenti” del 2003, che già vestiva fuorimoda, scattava in analogico, ma non aveva ancora la trovato una definizione commerciale inscatolante.
Poi è arrivato il successo con La Malavita: un album con qualche ammiccamento di critica sociale facile, ma sostanzialmente – e piacevolmente – capace di unire letteratura e musica, costruendo una narrazione compatta e omogenea che dai banchi di scuola porta a Conrad.

Autocompiacimento compreso nel prezzo dell’album, che però si balla: i dandy da balera indiscussi della stagione 2005-2006.

Arriva poi Amen, disco centrale, in cui si incomincia a sentire l’influenza dell’impostazione orchestrale, di una musica più strutturata che in Fantasma troverà il suo punto più alto e allo stesso tempo composito. Ancora una volta le fotografie di un’Italia anni ’70 scattate con la Polaroid si mescolano a spunti di critica sociale, sempre vissuta intimamente e non come dramma collettivo, e a temi più introspettivi legati al senso della vita e della morte.
Intanto si continua a ballare e si balla molto anche con I mistici dell’Occidente, un disco con alcune sbavature rispetto ai precedenti, ma in grado di mescolare rock e ballata senza scadere nel ligabullismo.

Inutile dire, dopo questa lunghissima premessa, che mi aspettavo molto da quest’ultimo album, forse troppo. Per chi si era letteralmente sciolta ascoltando Diorama e Monumentale, per chi aveva saltellato, con malinconia, sulle note de Le Rane, l’attesa era durata anche troppo a lungo. Ma di quest’album, dopo alcuni ascolti, rimane poco. Non c’è un apice, non c’è un elemento che ti faccia fermare e dire “Aspetta un attimo, questa cosa la devo risentire”. Piacevole, con alcuni momenti più interessanti, ma fondamentalmente senza una vera anima.
I Baustelle sembrano aver perso, speriamo solo momentaneamente, la capacità di evocare con un pugno di parole e una manciata di note. Si sono un po’ persi nella ricerca formale, come se volessero dire al mondo “Siamo molto complessi e interessanti”, come se avessero voluto produrre un disco da “studiare”, dimenticando che la musica che si studia è quella che arriva in modo diretto e diventa indelebile.

L’amore e la violenza è un disco povero di passioni. Se ne parla molto, ma non si sentono.

Forse in questo sta la chiave di lettura più interessante dell’album, nella sua lucida capacità di resa di un presente quasi completamente ripiegato sul mostrare, sulla costruzione del sé per un pubblico non pagante fatto di like e consenso. Ma la passione vissuta è un’altra cosa.

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