Musica

L’altro Vietnam: i musicisti di Hanoi rievocano il conflitto 40 anni dopo

28 Marzo 2015

Lo statunitense Ian Brennan è un produttore discografico con dei Grammy Awards all’attivo e un curriculum fitto di collaborazioni: Lucinda Williams, Bill Frisell, Jonathan Richman, Richard Thompson e il nostro Jovanotti tra i tanti. Ha lavorato anche con le star del blues tuareg, i maliani Tinariwen, e documentato la musica dei ruandesi The Good Ones, un trio di musicisti scampati al genocidio, incontrati durante un viaggio alla scoperta della musica del paese africano. La sua ultima produzione è Hanoi Masters, antologia pubblicata dalla Glitterbeat che raccoglie registrazioni effettuate nella capitale del Vietnam durante l’estate del 2014 e che ha come protagonisti musicisti tradizionali vietnamiti che rievocano, a quarant’anni dalla fine del sanguinoso conflitto nel sud est asiatico, la tragica esperienza della guerra. Un documento sonoro affascinante, che racconta, dopo decenni in cui il punto di vista degli sconfitti ha monipolizzato l’immaginario collettivo, in America e non solo, la guerra degli altri, con annesse ferite e cicatrici (“La guerra è una ferita, la pace è una cicatrice”, recita per l’appunto il sottotitolo della raccolta). Lo abbiamo intervistato.

In questo disco si vuole raccontare la guerra del Vietnam, quarant’anni dopo, dalla parte degli “altri”. Una guerra profondamente radicata nell’immaginario collettivo, punto di partenza di una lunga riflessione all’interno della cultura statunitense e più in generale occidentale, raccontata da infiniti film e libri. E anche dischi: qualche anno usciva una monumentale raccolta intitolata …Next Stop Is Vietnam, che documentava non solo la musica che ascoltavano le truppe ma anche quella che suonavano. E tuttavia non si parla quasi mai del punto di vista vietnamita sul conflitto…
“Sono cresciuto nella baia di San Francisco e sono stato testimone del fenomeno ‘boat people’ subito dopo la guerra. Molti vietnamiti finivano nei ghetti di San Francisco e Oakland: era la prosecuzione delle loro sofferenze in un altro paese. In quello stesso periodo il fenomeno dei senzatetto crebbe, e molti di questi homeless erano veterani del Vietnam. Per ironia della sorte, i veterani e i loro ex nemici si incontravano di nuovo sul suolo americano. Molto si è detto sulla condizione dei veterani – attraverso film come Apocalypse Now e Platoon, e dischi come Born In the USA – e chiaramente i soldati vietnamiti hanno patito traumi simili, ma è un aspetto che non è mai stato preso in considerazione”.

Con quale criterio sono stati selezionati i musicisti?
“Grazie alla compositrice Van-Anh Vo abbiamo avuto l’opportunità di incontrare alcuni maestri di Hanoi. Abbiamo chiesto loro di proporre canzoni che raccontassero le loro personali esperienze di guerra. Ma le sorprese musicali più grandi sono arrivate da chi non prendeva più in mano gli strumenti da allora”.

Ovviamente il tuo interesse, al di là degli aspetti sociologici e storici, è in primo luogo rivolto alla musica. Che cosa ti ha colpito di più in questo senso nell’avventurarti alla scoperta di questo patrimonio musicale?
“C’è una tendenza diffusa ad etichettare la cultura asiatica come ‘passiva’ e femminile. Questa percezione errata ha senza dubbio giocato un ruolo nella ricorrente sottostima della prodezza militare di paesi come Vietnam, Corea e Giappone da parte degli occidentali. La musica rivela sottili ma evidenti tradizioni poliritmiche e legate alla manipolazione del suono. Ad esempio possiede una tecnologia simile a quella della leva del tremolo usata per le nostre chitarre elettriche che risale addirittura al nono secolo. E poi il K’ni – uno strumento a corda che viene stretto tra i denti utilizzando il cranio dell’esecutore come cassa di risonanza – ha un suono assolutamente extraterrestre. Molti musicisti elettronici di oggi non riuscirebbero a produrre qualcosa di altrettanto futuristico”.

Fino a qualche anno fa registrare sul campo musiche di paesi lontani era una attivittà connessa con il mondo accademico. Ora l’interesse nei confronti di queste musiche si è intensificato. Credi che ci sia una maggiore apertura e curiosità da parte del pubblico, e che una categoria se vogliamo “settaria” come world music abbia sempre meno senso?
“Il termine world music è fondamentalmente errato, poiché posiziona gran parte del globo nella posizione di ‘altro’ e l’etichettatore al centro del discorso. Tutta la musica proviene da qualche parte del mondo, e allo stesso modo tutta la musica è ‘locale’ in riferimento alla regione di provenienza. Sicuramente l’etnomusicologia ha un valore, ma cercare di categorizzare o fissare la musica è in contrasto con la sua natura di fondo: essere in un costante stato di flusso e di mutua, multipla influenza. Per la verità il mercato commerciale sembra essere sempre meno interessato a tutta la musica che non sia cantata in inglese o non sia latina. Se invece radio e televisioni rappresentassero un caleidoscopio di suoni e linguaggi provenienti da tutto il mondo – un quotidiano miscuglio di culture – ne risulteremmo tutti quanti arricchiti.

Il tuo ruolo non è facile da definire. Hai lavorato su molti progetti e con modalità differenti: ti consideri un produttore discografico, un audiodocumentarista, un ingegnere del suono o un etnomusicologo? O magari un po’ di tutte queste cose?
“Cerco di non considerarmi affatto. Il mio obbiettivo è rimanere invisibile all’interno del processo. L’intenzione è quella di assecondare le più autentiche espressioni emotive che provengono dall’interno anziché dall’esterno dell’individuo, con il minimo di affettazione. Il mio ruolo in quanto produttore può spaziare dall’essere coautore di canzoni all’essere semplicemente fonico, cosa quest’ultima che deriva dalla necessità in quanto non mi considero un vero e proprio ingegnere del suono. La tecnologia per me è un semplice mezzo, di per sé non mi interessa. L’elemento più importante è la volontà di non fare nulla se è necessario. E aiutare allo stesso modo gli esecutori a non essere guidati dall’ego e dall’intelletto. Che si lavori con una grande star come Jovanotti o si scoprano dei gruppi, registrandoli magari per la prima volta, come è accaduto con The Good Ones e Malawi Mouse Boys, l’approccio è lo stesso: entrare in contatto con il lato umano della persona e celebrarne le particolarità anziché mascherarle”
“Ricordo” e “perdita” sono parole chiave in Hanoi Masters, i protagonisti sono musicisti tradizionali la cui vita è stata segnata dalla guerra. Ma c’è anche l’idea, se ne parla nelle note del disco, che questa musica possa esprimere una resistenza nei confronti dell’omologazione globale che ci riguarda tutti quanti. In qualche modo una presa di posizione politica.
“Di sicuro l’avanzamento della standardizzazione è molto pericoloso. Quando la gente banalizza la musica e la cultura pop in realtà fa un disservizio a se stessa. Declassare il pop e la musica folk a fenomeni irrilevanti è una forma di cinismo deliberatamente velato, che rende possibile alle forze corporative l’invasione della nostra quotidianità. Nonostante la parola ‘diversità’ vada parecchio di moda ultimamente, ciò che praticano le società industrializzate va in direzione opposta. In realtà sono queste forze corporative ad essere alla nostra mercé, sono loro che dipendono dalla nostra attenzione. Indebolire questo meccanismo è semplice, è sufficiente voltare le spalle a tutto quello che ci viene somministrato con troppa facilità e cercare invece in maniera più attiva di andare alla ricerca di realtà più nascoste, più spirituali”.

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