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L’ago ed il danno che ha causato
Si sono piaciuti subito. L’orso canadese taciturno Neil Young e l’hippie scanzonato Danny Whitten, due opposti che si attraggono, incontratisi per caso una sera, nella strada davanti alle sale di registrazione della Atlantic nella primavera del 1968.
Danny ha appena ottenuto un rifiuto: dopo aver fatto una piccola carriera tutta californiana come componente di un coro di rhythm’n’blues, vestito da galantuomo e col capello a spazzola biondo, il ragazzone dell’Ohio si è presentato trasformato in un figlio dei fiori che, come gli rimprovera il manager, non è più stato dal barbiere da almeno due anni. Due anni in cui ha lottato contro l’artrite, di cui soffre fino da quando è ragazzino, e con una fidanzata simbiotica, ed ha imparato a suonare la chitarra – ascoltando i Byrds ed i Grateful Dead, i grandi dell’epoca. Neil ha appena litigato con tutti, come è suo costume, si è quasi picchiato con Stephen Stills e Richie Furay, che con lui sono diventati famosi nel mondo con i Buffalo Springfield: i due suonano country-rock quasi messicano, Neil suona un folk triste tutto canadese.
Neil ricorda che Danny ha attaccato bottone, lo ha invitato a bere una birra, lo ha coperto di parole, mentre lui (come sempre) taceva, e poi gli aveva fatto sentire un paio di cose alla chitarra. Alle tre di mattina Neil gli dice: non preoccuparti del contratto, ne firmo uno io e facciamo il disco insieme. E così è stato. I primi indimenticabili dischi solisti di Neil Young traboccano della chitarra di Danny, che diventa il principale arrangiatore dei pezzi di Young – così come era accaduto tra David Bowie e Mick Ronson.
Whitten è colui che sceglie i musicisti e crea così la band Crazy Horse, cui Neil Young rimedia anche un piccolo contratto discografico. Ma le cose vanno male: Danny soffre per l’artrite e prende medicamenti sempre più pesanti, e la sua nuova fidanzata lo lascia per andare a vivere in una fattoria hippie in una riserva indiana dell’Arizona. Danny inizia a prendere l’eroina, e sul palco non è più lo stesso. Neil ne soffre davvero, e scrive una canzone quasi d’amore per cercare di risvegliarlo, la famosa “The needle and the damage done” (l’ago ed i danni che sta causando), e per un breve periodo Danny si rimette in carreggiata. Neil canta di amare quel ragazzo, e che ciò sia una cosa che gli altri non possono capire. Un’amicizia per cui ancora oggi il cantautore canadese ha dei silenzi imbronciati, se qualche giornalista gli parla di Danny.
Poi, la sua fidanzata torna, e scompare nuovamente. Danny scrive una canzone straziante, “I don’t want to talk about it” (Non ho voglia di parlarne), nella quale la invita disperatamente a restare ed a provare ad ascoltarlo, almeno per una volta. Neil gliela fa cantare, da solo, all’inizio di ogni concerto, ed è un successo strepitoso – ma è anche l’inizio della fine. Con l’eroina ha smesso, ma prende quantità immani di Diazepam, una medicina per l’artrite, e la prende con liquori pesanti, che lo rincitrulliscono per ore. Nel 1972, durante il tour, Neil lo rimanda a casa, e lui muore pochi giorni dopo, perché il suo fegato non regge più, a soli 29 anni.
Al funerale Neil ha una delle sue famose crisi di rabbia. Gli voleva bene davvero, e quella canzone non l’ha mai più fatta cantare ai suoi concerti. L’ha ripresa Rod Stewart e ci si è arricchito, perché è un bravo di una tristezza stupenda. Ma questo Danny non lo saprà mai. Quanto alla fidanzata, uno degli amici di Danny, Billy Talbot, ha raccontato anni dopo di averla vista in un supermercato di Los Angeles, terribilmente invecchiata e con due ragazzini per mano. Troppo tardi per l’anima fragile del suo amico d’infanzia, l’ennesima foglia bruciata al sole di un’estate di musica ed amore irripetibile.
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