Musica
La Superonda della musica italiana
Potremmo battezzarlo “il libro da portare sotto l’ombrellone” quest’estate, se non fosse che c’è il rischio che dopo un po’ la sabbia diventi abrasiva, le creme solari allucinogene e la radiolina del vicino (magari con qualche tormentone stagionale) un vero e proprio “nemico” da far volare con un urlo tra i flutti.
È Superonda – Storia segreta della musica italiana (Baldini&Castoldi, 660pp., 20€) scritta da Valerio Mattioli, un lavoro che – giusto dirlo subito – è certamente tra i più importanti usciti negli ultimi anni in Italia in ambito di musiche popular (e unpopular, come vedremo).
https://youtu.be/g6KG7NoBrF0
È un libro importante per una serie di ragioni: nato con l’intento – più o meno dichiarato – di (ri)leggere le vicende della musica italiana tra il 1964 e il 1976 con uno sguardo originale capace di annodare (pur nella loro evidente diversità) le tante esperienze creative, più o meno oscure, che hanno convissuto con le mitologie pop più conosciute, Superonda è innanzitutto un lavoro che ha un suo taglio, che lo dichiara da subito e che fornisce strumenti e chiavi di lettura invece di indulgere – come è spesso costume del giornalismo musicale tricolore – in mitologie e personalismi che difficilmente restituiscono profondità alla materia trattata.
È poi un libro molto divertente (Mattioli è – i lettori di BlowUp o di Prismo lo sanno bene – una penna che alla preparazione aggiunge un’arguzia piuttosto irresistibile) e ricchissimo di spunti e suggerimenti d’ascolto.
Dalle vicende del Piper a quelle di Parco Lambro, passando per le sperimentazioni della contemporanea e degli improvvisatori, il prog italiano, Morricone e i suoi epigoni, il free jazz e Battiato, i magheggi tipicamente “italioti” alla base del grande giro delle sonorizzazioni per la tv, il revival del folk e i cantautori, le visioni di Superstudio e quelle di Claudio Rocchi, Mattioli innesta temi e narrazioni sul corpo di quella che è, a tutti gli effetti, una sorta di (anti)storia sociale del nostro paese in quel fugace intervallo di tempo in cui si è passati dal boom agli anni di piombo.
È un compito in fondo utopico, quasi da “cucchiaino” Agostiniano e racconta in fondo – non lo si prenda come un paradosso anche senza scomodare Halbwachs e la “memoria ricostruttiva”– più il presente che avanza che non il “passato”, un presente che “ricostruisce” la propria tradizione adattandola al quadro socio-artistico di riferimento che, per Mattioli (che è anche musicista negli Heroin in Tahiti) come per moltissimi appassionati di musiche creative, trova giustamente nei bagliori anticipatori di una semisconosciuta colonna sonora di un thriller più riferimenti che non in Liù degli Alunni del Sole.
Credo sia giusto tenere conto di questa prospettiva (che tra l’altro è se vogliamo ancora più interessante) per inquadrare ad esempio alcuni “eccessi d’entusiasmo” quali quelli riservati a un disco sì fighissimo (a sentirlo oggi) come The Feedback di The Group (sigla dietro cui si celavano i musicisti del Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza più batteria motorik di Enzo Restuccia), ma che all’epoca fu praticamente rinnegato da Evangelisti e soci e che in fondo non rappresenta – al di là dell’esito “anticipatorio” – quelle che erano le traiettorie reali dei musicisti coinvolti.
https://youtu.be/lHpumFSr6t8
Il libro è pieno di pagine memorabili, come quelle dedicate a Morricone o a Alvin Curran (e si perdona a Mattioli forse un po’ di “poesia” nel dipingere l’esperienza di Musica Elettronica Viva, tra l’altro ancora attiva di tanto in tanto, come nel recente passaggio italiano a Angelica e al Centro d’Arte di Padova, come una sorta di esperimento di quattro fricchettoni), come quelle in cui riesce con lucidità a inquadrare il rapidissimo evolversi delle colonne sonore per i film di genere, come quelle dedicate a Mario Schifano, come quelle in cui restituisce con semplicità il non facile groviglio tra marketing e arte che era la Cramps di Gianni Sassi.
Forse un po’ meno a fuoco – ma sarebbe stato probabilmente impossibile rendere la complessità di quei contesti in poche pagine – è la parte dedicata alla musica “seria”, ma il ruolo di figure come quelle di Scelsi, Berio o Nono, nonché dei vari Studi di Fonologia, è ricordato con pertinenza lungo tutto il libro.
In una recensione che potete leggere su BlowUp di luglio, Stefano I. Bianchi individua nella sezioni dedicata ai cantautori (dove appaiono rapidamente dunque De André, De Gregori e soci, per arrivare dove si vuole arrivare, cioè al Battisti di Anima Latina) una sorta di momento frettoloso e forse evitabile.
Io invece trovo quelle pagine, pur nell’inevitabile superficialità della trattazione, un punto importante del libro, quello che apre a ulteriori potenzialità del libro. Perché sebbene le vicende descritte vadano a costituire una affascinante quanto preziosa “storia alternativa” (o comunque meno evidente) della nostra musica, credo che sia ancora più uncanny – per usare un termine caro all’approccio di Mattioli – cioè più “perturbante” immergere queste esperienze dentro la quotidianità di quei tempi, fianco a fianco con le cose più commerciali e pop con cui condividevano spesso studi di registrazione, musicisti, etichette, fruitori.
L’impresa avrebbe richiesto probabilmente un numero di pagine che nemmeno Albinati in crisi di megalomania alla David Foster Wallace, ma mi piace pensare che un libro così bello – e per molti versi indispensabile – possa accendere anche bagliori fiammeggianti verso angoli in cui la glassa di zucchero è altamente infiammabile.
Per ora basta e avanza mettersi a sognare riascoltando tutto il ben di Dio suggerito dal libro. Che sì, davvero è quello da portare sotto l’ombrellone… in fondo al mare cosa c’è di meglio di una super onda?
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