Musica

La scomparsa di Dieter Moebius, defilato maestro elettronico

25 Luglio 2015

 

https://www.youtube.com/watch?v=GAVFQ2gaf8k

Esponente tra i meno appariscenti della scena elettronica tedesca degli anni Settanta e inventore di mondi sonori a lunga gittata, Dieter Moebius è scomparso lo scorso lunedì all’età di 71 anni, dopo una lunga malattia. Era nato in Svizzera e, dopo studi artistici in varie città europee, aveva trovato a Berlino Ovest il luogo e il tempo giusti per coltivare il proprio approccio autodidatta e intuitivo alla musica. Erano gli ultimi anni Sessanta e nella metropoli tedesca Moebius era uno degli animatori del leggendario Zodiak Free Arts Lab, locale dedicato alle sperimentazioni free form non solo musicali e agli happening, insieme a Conrad Schnitzler, ex allievo del pittore e scultore Joseph Beuys nonché componente della primissima formazione dei Tangerine Dream di Edgar Froese, gruppo in seguito destinato a rappresentare nel mondo il suono cosmico tedesco più fruibile e commercialmente fortunato. Allo Zodiak bazzicava anche il più vecchio – all’epoca già ultratrentenne – Hans-Joachim Roedelius, pure lui musicista autodidatta con propensione alla sperimentazione radicale.

Con quei cognomi da poeti del primo romanticismo tedesco, Moebius e Roedelius non potevano che unire le proprie forze per creare qualcosa di memorabile. Inizialmente insieme a Schnitzler, che avrebbe poi proseguito la carriera su sentieri più estremi e autarchici, il duo aveva dato vita ai Kluster, ostico laboratorio di suoni astratti e brutale elettronica primitiva.

Persa la K nel nome, in favore della più morbida C, contemporaneamente all’abbandono di Schnitzler, il duo diede una forma sempre più riconoscibile alla propria ricerca musicale, grazie anche al contributo iniziale di Conny Plank, altro personaggio chiave di quegli anni: ingegnere del suono tra i primi a intuire e sfruttare le possibilità espressive offerte dallo studio di registrazione, Plank avrebbe lavorato in seguito con David Bowie, Brian Eno, Kraftwerk, Neu!, Devo, Ultravox, Eurythmics. E pure, tanto per capire quanto quella attitudine avanguardistica avesse fatto breccia nell’immaginario pop mainstream continentale, la Gianna Nannini di Profumo.

Se brani come la claustrofobica e autoesplicatica Live in Der Fabrik, contenuta in Cluster II, album pubblicato nel 1973, già possedevano una forte componente precorritrice (nel caso specifico una anticipazione della musica industrial), il vero salto in avanti coincise con un cambio di paesaggio: dai grigi paesaggi urbani della Germania del dopoguerra alla bucolica valle del fiume Weser nella Bassa Sassonia, un angolo di terra a malapena sfiorato dalla civiltà industriale e caratterizzato principalmente da colline boschive. Lì, nel minuscolo villaggio di Forst, i due restaurarono una vecchia cascina trasformandola nel proprio quartiere generale nonché studio di registrazione.

A Forst, trafficando con primitive batterie elettroniche, tastiere, sintetizzatori e due registratori Revox che si rimpallavano i segnali sonori, inventandosi una musica elettronica poetica e agreste, di inaudita originalità e freschezza, Moebius e Roedelius delinearono un suono che avrebbe enormemente influenzato, in prima battuta, le intuizioni di Brian Eno, loro grande fan, e di conseguenza la parentesi musicale berlinese di David Bowie che lo stesso Eno stava contribuendo a edificare, in particolare una pietra miliare come ‘Heroes’. Non solo: anche una buona parte dell’elettronica dei decenni successivi, incluse propaggini ambient, dance, house e techno, e il cosiddetto post-rock degli anni Novanta, per arrivare fino a chi, come i Radiohead, saprà miscelare consenso di massa e incessante ricerca sonora, avrebbero fatto tesoro di quella sapienza seminascosta nei boschi della vecchia Germania.

L’album chiave in questa epifania è Zuckerzeit (ovvero“il tempo dello zucchero”), prodotto nel 1974 da Michael Rother dei Neu!, il quale sarebbe diventato il terzo polo della arcadica comune musicale. Il contributo del chitarrista, il cui gruppo d’origine aveva suscitato parecchia curiosità con la sua ipotesi ripetitiva e iperminimale di rock in un contesto musicale in cui si incominciava insistentemente a parlare di krautrock – come nel caso di “spaghetti western” una definizione denigratoria veniva rovesciata e trasformata in dichiarazione di appartenenza, ed estraneità ai codici del pop angloamericano – e i grandi colossi discografici si erano resi conto che esisteva una scena musicale underground e soprattutto un pubblico giovanile interessato e curioso a cui vendere dischi, diede senza dubbio una ulteriore spinta in avanti.

L’intuizione di Zuckerzeit fu in ogni caso semplicissima: niente più lunghe improvvisazioni mutanti e astratte, ma concisi acquerelli, melodie semplici e immediate incastonate in caracollanti ma assai incisivi loop ritmici. Il tutto nato da improvisazioni controllate e rifinite in studio. L’intuizione innescò una vera e propria fioritura creativa: Rother, Moebius e Roedelius si inventarono gli Harmonia, titolari di altri due album fondamentali, e lo stesso Brian Eno fu più volte ospite a Forst. Da quelle jam informali nacquero un paio di album a sei mani e, tra le altre cose, uno dei più celebri brani di Eno, By This River, inserito poi da Nanni Moretti nella colonna sonora de La stanza del figlio, con Moebius e Roedelius nelle vesti di coautori.

In seguito l’attività dei Cluster divenne intermittente. Roedelius, approfondito lo studio del pianoforte, inaugurò una carriera solistica per molti versi precorritrice dell’attuale scena neoclassica, e Moebius, seppure meno attivo del collega, si mantenne perfettamente sintonizzato sulla musica del futuro. Ad esempio nell’ironicamente intitolato Rastakrautpasta del 1979, collaborazione con Plank, geniale e freschissima commistione di dub giamaicano e musica industriale.

https://www.youtube.com/watch?v=Vx3mx-bbgZM

Negli ultimi decenni l’attività di Moebius non si è mai fermata: collaborazioni trasversali, concerti, apparizioni a festival. Anche dopo l’abbandono dei Cluster, rimasti pochi anni fa nelle mani del solo Roedelius, il quale, con estremo gesto di coerenza, aveva sottolineato l’ennesimo cambio di passo trasformandoli in Qluster, sigla tuttora attivissima. Ma i Cluster originari erano comunque ritornati in attività nel 2007 dopo una serie di intermittenti ritorni, dal vivo e in studio, per raccogliere meritatamente quanto seminato nei decenni. Pubblicamente riconosciuti come precursori e pionieri, apprezzati da chi era cresciuto ascoltando quegli artisti che così tanto dovevano alle loro intuizioni. Ma sempre un po’ defilati. Chi scrive ricorda un concerto torinese nel 2010, presso la cappella sconsacrata del cimitero di San Pietro in Vincoli, suggestiva location in cui il quasi settantenne Moebius e il quasi ottantenne Roedelius avevano riproposto, chini su macchine e cavi come nuove promesse dell’elettronica, l’antico e quasi telepatico rimpallo sonoro. A fine concerto, mentre Roedelius, inforcando gli occhiali, firmava pazientemente i vinili di un fan, un taciturno Moebius si aggirava per la location con l’aria di chi, pur felice dei riconoscimenti, non aveva mai smesso di chiedersi che cosa ci si potesse trovare di così speciale in quella musica la cui creazione gli pareva, evidentemente, così naturale. Una domanda cui si potrebbe rispondere con una dichiarazione del compositore Tim Story, che ne echeggia una assai simile riferita da Brian Eno a proposito del lascito dei Velvet Underground sul rock successivo: “I Cluster avranno venduto anche solo poche migliaia di copie, ma l’impressione è che ciascun ascoltatore abbia voluto fondare una propria band”.

 

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