Musica
La Nuova Musica: di nicchia?
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Leggo e sento sempre più aspra la polemica, da parte di compositori, musicisti e ascoltatori, per un certo tipo di musica diciamo “colta” (il termine non mi piace, perché significherebbe che l’altra musica sarebbe “incolta”, il che non è, ma non so trovare un altro termine che risulti immediatamente comprensibile per ciò che denota). L’accusa è sempre la stessa: è, questa musica, un coacervo di residui di un’avanguardia defunta e seppellita, è musica per pochi, musica di nicchia, torre d’avorio d’intellettuali staccati dal mondo di oggi, musica che non è percepita subito né come musica né come musica immediatamente comprensibile, ma che appare ai più come uno sterile esercizio intellettualistico. Queste sono più o meno le critiche, espresse in diversi modi, raramente pacati, più spesso accesi quando non addirittura insultanti. Premetto che anche io trovo vuota o quanto meno vecchia la musica che ripeta formule e schemi di avanguardie che non hanno più né seguito né senso, oggi. Ma non è tutta ripetizione di formule la musica che voglia incamminarsi su strade non ancora percorse. Appunto: non ancora percorsa, perché ripetere le avanguardie è invece camminare su strade già percorse, il che non è diverso dal praticare un ritorno alla tonalità o quanto meno a una musica maggiormente percepibile nell’immediatezza dell’ascolto. Ciò premesso, se qualcosa il tramonto di certe avanguardie, e la fine, è vero, di certi dogmatismi, di certe imposizioni delle avanguardie, hanno insegnato è che non esiste una formula unica di scrivere nuova musica. Ciò che sembra invece emergere dalle proteste dei più è che andrebbe rifiutata qualunque musica che non trovi un generale consenso, che appaia come un lavoro troppo personale, cervellotico, snobistico, intellettualistico, appunto, di chi insomma si ostinerebbe a perpetuare un livello autoproclamantesi alto, individualistico, a continuare una ricerca solitaria, qualcuno direbbe onanistica, cose tutte che non troverebbero più riscontro nelle richieste della società di oggi. Non capisco, però, perché questi mondi così diversi dovrebbero escludersi. Sono sempre esistite diverse forme di arte, in una stessa società. Sono sempre esistiti diversi generi. E ciascun genere si è sempre rivolto a un pubblico ben preciso. O, forse, oggi si vorrebbe un genere unico, né alto né basso, ma uguale per tutti? Scrivere un genere alto significherebbe essere di nicchia, antidemocratici. E’ sempre stato così? La poesia ellenistica era una poesia alta, di nicchia, intellettualistica come poche altre – lo stesso può dirsi della straordinaria poesia cinese dell’epoca T’ang – eppure tutta la poesia d’occidente fino a oggi ne è figlia, compresa quella delle canzoni e perfino del rock. Della musica medievale, come osservava Pirrotta, conosciamo solo quella che ci è arrivata scritta, sì e no il 10% della musica che si faceva in Europa. Eppure da quel 10% nasce la musica che si fa oggi, almeno in occidente, e non solo quella “colta”. Se poi pensiamo che in una discoteca di Tokio si ascolta oggi più o meno la stessa musica di una discoteca di New York o di Buenos Aires, possiamo dire che da quella musica nasce tutta la musica di oggi, o quasi. Il colonialismo militare è stato sconfitto. Quello culturale, no. Nel secolo XIV nasce un movimento musicale che si autochiama Ars Nova. L’avranno praticata, questa musica, per un secolo, dapprima in Francia, poi in tutta Europa, non più di 1.000 persone. Il resto della popolazione continuava a fare la musica che faceva si può dire da sempre. Non la conosciamo perché di tradizione orale. Il discrimine sta proprio qui: nella scrittura. La musica “alta” s’identifica con la musica scritta. Almeno in Occidente. Più variegato il panorama arabo, persiano indiano, cinese: dove, come da noi, comunque c’è un livello “alto” – classico? – e un livello più basso, non necessariamente popolare. L’idea che tutti debbano conoscere, apprezzare tutto e goderne, è un’idea falsamente democratica: è un’idea tra l’altro tipica di alcune derive populistiche degli ultimi decenni. Non che siano tutti populisti quelli che le sostengono, ma i populisti ne hanno fatto una specie di manifesto. Sono invece sempre esistite “nicchie” di “privilegiati”. In tutte le epoche e in tutte le società. A Ferrara se ne vantavano perfino, tra Cinque e Seicento: la chiamavano “Musica Reservata”, cioè per pochi, per quelli che potevano capirne i codici cifrati. Hanno composto musica bellissima. Marks Strand o Anne Sexton sono due grandi poeti nordamericani del Novecento, straletti e anzi addirittura popolari negli USA e nei paesi di lingua inglese, eppure la loro poesia non si capisce a una prima lettura. Nemmeno le poesie di Bob Dylan sono del resto immediatamente comprensibili a chi non ne condivida la cultura. Che c’entra dunque l’intellettualismo, l’artificiosità di cui si accusa certa poesia, certa musica? Senza saperlo, forse, anche la più banale delle canzoni stradiffuse nel mondo è artificiosissima. Può essere artificiosa perfino una canzone popolare. Frère Jacques (Frà Martino Campanaro) è un canone. Finnegans Wake non è un romanzo per tutti, e nemmeno lo pretende. Dove starebbe la sua colpa? C’è spazio per tutti. La musica che si accusa di essere snob, esclusiva, intellettualistica non nasce come musica per tutti. Non vuole nemmeno esserlo. E’ proibito? Perché dovrebbe somigliare a tutta l’altra musica concepita per tutti? Ma poi, lo è veramente, per tutti, quest’altra musica? Tutti amano la stessa musica, gli stessi cantanti, anche tra i giovani? Nessuna musica nasce per tutti: nasce per chi l’apprezza, ne condivide la cultura, che sia musica di nicchia stracolta, o jazz, rock o addirittura muzak, musica d’arredamento, quella che si ascolta in aereo, nei negozi, nei supermercati. Paradossalmente, mi sembra che i più intolleranti oggi si dimostrino non quelli che sanno e vogliono fare una musica “intellettuale”, “di nicchia”, che si rivolge a pochi, ma tutti gli altri che vorrebbero che non si facesse altra musica che quella che piaccia a tutti. Alla faccia della libertà e della democrazia. En passant: democrazia non è l’imposizione a tutti delle regole di una maggiorana, ma il rispetto anche di quelle delle minoranze. In margine: una delle idiozie che girano di più, soprattutto tra gli italiani, tra gli italiani fautori di una cultura sedicente popolare, è che il melodramma sarebbe uno spettacolo “popolare”. Falso. Il melodramma nasce come spettacolo per l’aristocrazia e dopo, grosso modo dal settecento in poi, anche per la borghesia, nell’ottocento e nel novecento soprattutto per la borghesia, per il “popolo” mai. Per favore guardiamo i fatti, e buttiamo alle ortiche le ideologie. Ma poi chiedo: c’è qualcuno che accusa di essere una disciplina di nicchia la fisica dei quanti? E si è mai notato quanto sono e vogliono apparire “di nicchia”, perfino nel linguaggio, gli esperti d’informatica? Perché dunque solo nella musica, nella poesia, nelle arti sarebbe un crimine non essere immediatamente capiti da tutti, anzi non rivolgersi a tutti? E’ una colpa scegliersi gli amici, scrivere qualcosa per i pochi che ne capiscano le intenzioni e le regole? Un crimine scrivere per sé stessi? Se io, per esempio, mi voglio divertire con un marchingegno artificioso e incomprensibile, perché non dovrei farlo? Perché non è democratico? E che c’entra la democrazia con l’arte? Democratico non è scrivere qualcosa che tutti possano immediatamente capire, ma fornire a tutti gli strumenti, attraverso l’istruzione, l’educazione, per capirlo. Democratica è la scuola, non lo scritto difficile, che richiede istruzione per essre assimilato. Lo dico dunque con Palazzeschi: lasciatemi divertire, se mi diverto a scrivere cose complicate. Si è mai pensato che la cosa difficile, in qualunque campo, stimola l’intelligenza, obbliga a pensare, a cercare risposte, soluzioni? Si vuole un’arte che addormenti, che consoli, che culli e che non stimoli il cervello? Si vuole solo riconoscere ciò che già si sa? E come la mettiamo con le altre culture, con la musica delle altre culture? Non bisogna conoscerle, perché non si capiscono, perché bisogna studiarle per capirle? Avete mai sentito un canto mongolo? O i canti dei riti tibetani della morte? Ma anche senza andare così lontani, avete mai ascoltato il canto di una zingara, di una vera zingara? Una volta, in treno, da Roma a Napoli, quando c’erano ancora i vagoni con gli scompartimenti, udii venire dallo scompartimento vicino al mio il canto di una donna, bellissimo, liberissimo, una melodia che sembrava non avere né inizio né fine, una melodia non tonale, ma che ruotava ostinatamente intorno a un unico suono, dal quale ascendeva e discendeva per gradi congiunti, ma ritornando sempre allo stesso suono, a intervalli irregolari. Una melodia che non avevo mai udito, e che non assomigliava a nessuna delle canzoni che conoscevo. Una meldia modale. Mi alzai per andare a vedere chi fosse la donna che cantava: era una zingara che cullava il suo bambino. E uso di proposito la parola “zingara”, perché non so a quale etnia appartenesse, sinti o rom, non gliel’ho chiesto. Non ho voluto disturbare il suo bellissimo canto. Ecco, credo che tutta la differenza stia qui: tra chi non ha modelli ai quali adeguarsi e chi fa il catalogo dei modelli ammessi e di quelli non ammessi, e non ammessi perché indecifrabili, obsoleti, o soltanto diversi, estranei, esclusi dai modelli che conosciamo. Tra me e chi propone un modello, un sistema, la differenza è che io non ho nessuna intenzione d’imporre il mio modello o la mia visione a tutti quanti, tant’è vero che posso godere profondamente tanto di un lai di Machaut che di una canzone di Col Porter, di una fuga di Bach e di un Klavierstück di Stockhausen, di un Lied di Strauss e di una canzone dei Beatles, di un musical di Bernstein e di un canto tibetano, chi mi proibisce i miei giochi di nicchia invece vorrebbe che anche io mi adeguassi ai suoi modelli di ascolto, alla sua visione che omologa l’intero pianeta. Si chiama pensiero unico. Ed è tipico dei regimi autoritari. Ma è anche il modello delle industrie culturali, che così sanno conformare gli utenti alle proprie esigenze di profitto. La proclamata immediatezza di comprensione, che uguaglierebbe tutti, in realtà si rivela per l’asservimento a un unico modello di prodotto. La società così conformata può anche chiamarsi e credersi democrazia, di fatto è una società che abolisce la libera scelta, e pertanto si mostra per quello che è: una società omologata e pertanto una società autoritaria.
Fiano Romano, 14 novembre 2020
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