Musica
“La musica italiana, un artigianato da esportare”, intervista a Enrico Gabrielli
Enrico Gabrielli è un nome che dirà poco ai più, e probabilmente molto a chi frequenta in maniera più ravvicinata la scena musicale italiana. Soprattutto quella meno immediatamente visibile, le sue propaggini indipendenti, a cavallo tra pop e sperimentazione. Studi classici più o meno regolari, polistrumentista (fiati e tastiere), arrangiatore, compositore, fulcro di innumerevoli progetti e ospite richiesto in altrettanti frangenti, Gabrielli ha fatto parte degli Afterhours e dei Mariposa, e con i Calibro 35 ha rinverdito la memoria delle colonne sonore dei poliziotteschi anni Settanta, portandola al di fuori di una strettissima cerchia di appassionati e, soprattutto, esportandola.
Nel momento in cui, notizia recente, sta per uscire il nuovo, attesissimo album della rockeuse britannica PJ Harvey, al quale il nostro ha partecipato in veste di ospite, ci sembrava interessante intervistarlo in quanto figura paradossale, possibile in un paese in cui i media generalisti spesso si limitano a fare pigramente da megafono a quei pochi nomi della nostra musica leggera noti all’estero come Pausini e Ramazzotti o a considerare i talent e le loro dinamiche televisive come standard inevitabile del mercato musicale, dimenticandosi eccellenze artigianali che qualcuno ci invidia – o quantomeno ci richiede – all’estero. Gli abbiamo fatto un po’ di domande su questa doppia identità forzata, sconosciuto in patria e manodopera iperqualificata oltreconfine, sull’abbattimento dei localismi e su come si vive la professione di musicista in Italia.
Non è la tua prima esperienza estera come session man. Cinque anni fa hai preso parte ad alcuni concerti di Mondo Cane, progetto di Mike Patton dei Faith No More che omaggiava la tradizione della canzone italiana anni Sessanta. Come sono andate le cose in quel caso? L’impressione ascoltando il disco tratto da quei concerti è che l’entusiasmo di Patton fosse palpabile. C’era una precisa volontà di coinvolgere artisti italiani…
“Quando nacque Mondo Cane nella sua prima veste sinfonica io non facevo parte del progetto. Fui coinvolto nel 2009 per portarlo in tour in una versione ‘leggera’, per quanto possa essere leggera una compagine di 24 elementi. L’ingaggio avvenne con una manovra a tenaglia: da un lato l’incontro con Daniele Luppi (compositore e arrangiatore italiano attivo a Los Angeles sin da fine anni ’90, ndr), tramite i Calibro 35, in occasione del programma ‘Morning Become Eclectic’ dell’emittente radiofonica KRWC di Los Angeles, e l’intervento del mio vecchio compagno di band ‘Asso Stefana’. Entrambi mi hanno portato a incontrare Mike, che parla uno splendido italiano da film di Francis Ford Coppola. Patton è il performer vocale con più coscienza musicale e visione d’insieme che abbia mai incontrato. Al di là della complessità nel gestire una macchina così articolata attraverso l’Europa e il Sud America (Cile, Brasile e Argentina in particolare) Mike, che ha vissuto moltissimi anni nella Bologna controculturale degli anni 90, sapeva di avere bisogno proprio di musicisti italiani per essere più aderente alle riletture dei brani di Modugno, Endrigo, Paoli, Buscaglione. Forse per onorare il cliché del criminale gentiluomo, o per caratteristiche innate nel modo di suonare peninsulare, non saprei. Ma qualcosa di ‘tipicamente italiano’, non solo nell’accezione negativa, ben spesso abusata, evidentemente esiste. Noi stessi non lo sappiamo capire se non proviamo a guardarci, con molto sforzo, dall’esterno”.
La musica italiana, al di là dei grandi successi mainstream come Pausini o Ramazzotti, sembra essere invisibile, ma non poche individualità vengono cercate per la loro esperienza e per la loro professionalità. Che magari in patria fa fatica ad emergere, relegata alle scene alternative e indipendenti. Come si vive questo rapporto sbilanciato tra una sapienza artigianale del pop, in genere acquisita per vie del tutto personali e individuali, e che magari permette di togliersi qualche soddisfazione altrove, e l’impossibilità a far emergere pienamente tutto questo in patria?
“Non ha più senso ragionare in termini nazionali, questo è il punto nevralgico del discorso. Siamo parte dell’Unione Europea, nel bene e nel male, e copriamo una fetta importante della responsabilità sociale di tutto il sistema. Avendo accettato che l’Italia, con Spagna e Grecia, è il principale pied-à-terre turistico-vacanziero di tutto il Nord Europa, dovremmo cominciare a considerarci semplicemente la ‘parte sud’ di un conglomerato internazionale più ampio. Sembra un discorso internazionalista esagitato, ma è un po’ figlio di questi ultimi anni di tour massicci con i Calibro 35 e altri progetti, durante i quali mi sono fatto l’idea che i paesi europei siano più simili tra loro di quanto si creda, almeno facendo dei raffronti con Stati Uniti ed Estremo Oriente. Tornando dal Giappone e usando una lente di ingrandimento transoceanica la Francia e l’Italia sono molto simili, quantomeno negli aspetti negativi: alcol, business calcistico, mancata integrazione razziale, stupidità politica. Noi italiani abbiamo la sensazione ancestrale di essere diversi, isolati, perché siamo ossessionati da un profondo regionalismo. Oltretutto, non dimentichiamocelo, siamo una penisola, ovvero una ‘quasi isola’. Le città del nostro settentrione dialogano abbastanza bene con i paesi confinanti, centro e sud sono per forza di cose più autoriferiti, trovandosi in una sottile lingua di terra stretta tra due mari. Smetterei di pensare all’Italia come ad uno ‘stivale’ made in Italy, piuttosto ‘made in altrove’. Decentrarlo da qualche altra parte. Dovremmo diventare più apolidi, e c’è chi per diventare apolide ha scelto un’altra nazione. Mi vengono in mente fonici in gamba come Tommaso Colliva, Francesco Donadello, Nicola Antonietti, Marc Urselli, oppure musicisti come Andrea Belfi, Alessandro Cortini (Nine Inch Nails) o Davide Rossi (Royksopp, Coldplay). E poi c’è chi resta, senza troppi drammi. Penso che non sia vera la semplice equazione tra nascere in Inghilterra, l’epicentro dell’impero della musica, ed essere più agevolato nell’occuparti di popular music. A mio avviso è un certo disagio, dato dal rapportarsi con periferia e provincia, che può fornirti una visione più chiara, distaccata, del problema globale. E l’Italia può essere senz’altro un ottimo punto di osservazione”.
A proposito di artigianato ed eccellenze da esportazione, mi pare che uno degli elementi chiave nel progetto Calibro 35, di cui fai parte, sia il tentativo di valorizzare una tradizione italiana, svecchiarla e diffonderla anche all’estero, ovviamente mettendoci della personalità e non limitandosi a ricalcare una formula. Una ambizione che non può contare sulle istituzioni, come avviene invece altrove, ma che, con enormi sforzi, poco alla volta sembra trovare delle sponde. Ad esempio un vostro brano è stato campionato da un nome grosso dell’hip hop come Dr. Dre. Questo “recupero” sta girando, anche al di fuori dei media specializzati e dei circuiti settoriali.
“Esiste, evidentemente, un circuito internazionale legato ad una scena di ‘groove music’ con tutta una serie di sottoetichette (new funk, new soul, crime funk etc…) e alcune brillanti realtà discografiche che vanno dalla Daptone di New York alla nostra Record Kicks. L’Italia sta acquisendo adesso piano piano qualche interessante tassello, ma il grosso di questo mondo di appassionati è in paesi di lingua anglosassone e francofona. Il motivo andrebbe forse ricercato nel nostro approccio al ballo, a quel genere di disinibizione che ti fa assistere ad un concerto con una attitudine non intellettuale ma puramente sensoriale. Le sovrastrutture d’ascolto della nostra tradizione ci portano a percepire come ‘difficili’ i ritmi funk, anche perché non abbiamo mai avuto un reale confronto – siamo agli inizi – con la musica nera. La ragione è semplice, non abbiamo mai assistito ad una massiccia immigrazione dalle colonie africane. Invece possediamo tutti un codice di danza a ritmo ternario (campano, lucano, pugliese, siciliano, etc…) che pervade i nostri istinti corporei. Questi ritmi sono del tutto alieni per un inglese o per un tedesco. A dimostrare la lontananza che abbiamo ancora dalla cultura black ci pensa il livello puramente musicale della nostra attuale scena hip hop, che è quindici anni indietro rispetto al resto del mondo. Mentre è straordinariamente viva una scena di musiche strumentali ‘di opposizione’, inserita perfettamente in un circuito internazionale di scambi e relazioni. Anche nel delicato settore della musica classica contemporanea, o ‘musica d’arte’ come mi piace chiamarla, l’Italia, in forte cuginanza con la Francia, è estremamente connessa al sistema Mondo. Parlo di compositori della mia generazione come Mauro Lanza e Francesco Filidei e maestri indiscussi come Salvatore Sciarrino e Alessandro Solbiati, di cui sono tornato ad essere allievo in Conservatorio a Milano da due anni”.
Parliamo dell’Oscar a Morricone. L’impressione è che, al di là di una deferenza istituzionale alla “Porta a Porta”, puramente legata alla risonanza dell’Oscar, un autore del suo calibro continui ad essere poco conosciuto qui da noi. O meglio, si cita quasi sempre il sodalizio con Sergio Leone, oppure Mission, oppure i lavori per Tornatore, non altri aspetti della sua sterminata produzione. Insomma, il fatto che sia stato probabilmente l’unico italiano ad avere un ruolo decisivo nell’immaginario musicale del rock non viene mai adeguatamente sottolineato, sei d’accordo?
“Ennio Morricone, visto con gli occhi di un non italiano, è la più grande rock star italiana vivente. Sul suolo patrio, ahimè, solo dopo la sua morte verrà incentivata una riscoperta storica completa. Anche per quel che riguarda la sua produzione colta, che è sconosciuta non solo ai più ma anche ai meno, con somma frustrazione del Maestro, tra l’altro. C’è anche da dire che Morricone ha una produzione sterminata, e lui stesso è sempre stato un po’ stitico nell’elargire nastri, bobine e informazioni. Ho il sospetto che il Maestro sia sempre stato un po’ paranoico, ma negli ultimi anni è diventato facile alla polemica giuridica e un po’ diffidente se non si è in stretto contatto. Lo si evince dall’epopea dello stesso Tarantino nel coinvolgerlo e, di contro, dalla dedizione con cui Morricone ha lavorato indefesso con Tornatore dal secondo film in poi. Inoltre il Maestro non è di certo quello che si dice un uomo di ‘charme’, e il nostro paese ha bisogno di un po’ di divismo casereccio. Io l’ho incontrato, proprio con Mondo Cane. Eravamo a Santiago del Cile e dovevamo aprire il suo concerto. Alla notizia che c’eravamo noi in apertura s’è incazzato a morte con l’organizzazione perché non ne sapeva nulla. Abbiamo poi suonato dopo di lui per ragioni tecniche. Alla fine della prova pomeridiana ho provato a chiedergli un autografo. Gli ho dato un pezzo di carta e lui ha fatto uno scarabocchio. Poi, sbuffando perché doveva andare in albergo, ha detto a noi autografandi, ‘ah, quello è un autografo, nun è una firma, capito?’, tanto per mettere in chiaro che lui a fini legali firma diversamente e lascia a te, povero giovinastro, uno scarabocchio inutilizzabile. Al di là di questi aspetti del personaggio, ‘morriconiano’ è diventato, almeno tra noi musicisti, termine in uso per qualcosa di stilisticamente piuttosto preciso. Col tempo credo diventerà un termine da vocabolario come ‘fantozziano’ e ‘felliniano’ e giustizia sarà fatta”.
Una domanda diciamo brutale: come se la cava un musicista italiano come te quando va all’estero? Mi spiego meglio: immagino che, anche quando si resta all’interno di un circuito diciamo underground, si percepisca il fatto di giocare in un altro campionato, con un livello di professionalità per molte ragioni più elevato. Entrando nello specifico, Come sono stati accolti i Calibro 35 dal pubblico americano?
“L’attività di un musicista, se vuoi, la si può vedere, in termini professionali, a campionati. Ma solo in termini professionali (trattamenti, strutture, competenze), di cose che hanno direttamente a che fare con i soldi e la linea di demarcazione dello standard. Lo standard fa sì che non ci sia differenza tra la produzione di un concerto di Vasco Rossi o di uno dei Muse: le dimensioni sono uguali e le competenze specifiche le stesse. Questo, ripeto, perché ci sono i soldi. Ma la visione artistica non è una questione di grandezze, pesi e misure valutabili, perché è l”outsider’ che fa la differenza, quello fuori dalle regole, che per la sua imprevedibile diversità è utile ad un sistema già presente, per svecchiarlo o per metterlo in crisi. Io credo che l’Italia produca, per statuto, eccezioni continue. Qualche volta vanno a finire casualmente nei luoghi dove la linea standard ha bisogno di essere messa in crisi. Ma più spesso l’eccezione rimane tra le eccezioni formando, a sua volta, un sistema di standard strampalato tutto nostrano, ed è questo che noi, secondo me, percepiamo come problema. Per rispondere alla domanda: i pubblici durante un concerto in fondo si assomigliano tutti perché sono tutti di fronte a te sotto un palco, con una birra in mano ad applaudire più o meno, a ballare più o meno, a stare attenti più o meno. Sono, secondo me, il fuori, il prima e il dopo la parte decisiva. È una questione di sistema, cultura e società”.
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