Musica

La musica bisestile. Giorno 96. Leo Kottke

23 Ottobre 2018

MUDLARK

 

Ci sono due storie su questo disco. La prima riguarda un ragazzino della Georgia, che aveva imparato da solo a suonare ed aveva sviluppato un modo tutto “suo”, che oggi chiamiamo fingerpicking, per suonare, e che lui chiamava “scureggiare di oche in una giornata afosa”. Il fulcro è considerare ogni singolo tocco di ogni singola corda non solo uno sviluppo melodico ed armonico, ma anche la sincope di un ritmo. Suonando così, se si è capaci di farlo, chi ascolta ha l’impressione di avere di fronte a sé non un chitarrista, ma un’intera orchestra. Se siete cresciuti in Italia, andate a sentire Leonardo Marcucci dal vivo, e saprete di cosa sto parlando.

“Mudlark”, 1971

Stranamente, entrambi i Leo hanno storie difficili alle spalle. Leo Kottke è stato un bambino reso quasi handicappato da un incidente, ed il cui udito è stato quasi annientato durante il servizio militare, visto che era cannoniere. Dopodiché, una volta diventato famoso (con questo disco), entrato nel giro dei grandissimi chitarristi di classica, jazz e rock, è stato affermato dalla tendinite ed ha dovuto smettere di suonare per quasi dieci anni. Questo disco, “Mudlark”, è stato il suo primo ed ultimo capolavoro del periodo “selvaggio”, come lo chiama lui, nel quale era in grado di fare con la chitarra praticamente qualunque cosa. Ascoltare per credere.

E qui inizia la seconda storia. “Mudlark” è un disco praticamente introvabile, se non come ristampa. Nell’inverno del 1977 mi venne regalato da una persona, di cui sono stato innamorato per secoli, che probabilmente non conosceva (e cui non importava) tutto il retro scena. Non sapeva nemmeno quanto fosser raro, credo anzi che non lo avesse mai ascoltato. Mi voleva regalare qualcosa di particolare, speciale, unico, come il segno di un sentimento che non era in condizioni di poter affrontare, e ci riuscì.

Ho ancora quel disco, con la dedica sulla base della copertina. Ho ancora un ricordo indelebile di tutto ciò che accadde e che significò, anche se poi fui io stesso a non essere in grado, mille anni più tardi, di riallacciarmi ai ricordi e viverli nell’oggi. Troppo cambiato, troppa strada nei miei sandali, troppo passato. Sappiamo pochissimo delle nostre vere fragilità, perché le nascondiamo, prima di tutto, a noi stessi – ed io non faccio eccezione. Tutto è proiezione, finché non diviene vita vissuta. Ed ancora nel suo divenire cerchiamo dissennatamente e disperatamente di piegare la realtà alla proiezione, riuscendoci, rendendo ogni relazione un disastro. Facciamo male, ci lasciamo ferire, e finalmente torniamo, paguri del cuore, nel nostro guscio, dove non ci vede nessuno.

Leonardo Marcucci, di Roccastrada (Grosseto), è il più grande chitarrista che io abbia mai conosciuto personalmente e, se vi capita, dovete assolutamente andare a sentirlo. Come Leo Kottke ha un passato pieno di incidenti e disgrazie, che non elenco perché lui è estremamente pudico e ci rimarrebbe male. Posso dire che, quando per una malattia fu costretto per qualche mese a letto, imparò a suonare i primi due dischi della PFM a memoria. Ascoltarlo è scoinvolgente, sembra davvero Franco Mussida (ve l’ho aggiunto in un video rubato, mentre faceva lezione ad un ragazzino). Come Kottke, Leo è chiuso a riccio, non serve a nulla cercare di farlo aprire, bisogna prenderlo così come è. Anche Leo Kottke, per me, è un tipo speciale di paguro, chiuso nel guscio della sua musica che nessuno tranne lui è in grado di suonare, unico ed inavvicinabile.

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