Musica

La musica bisestile. Giorno 67. Area

8 Ottobre 2018

ARE(A)ZIONE

 

Un paio d’anni fa, ad un Festival sulla Prenestina, suonavano loro. Senza Demetrio Stratos, ovvio, ma anche senza qualcuno che ne prendesse il posto. Dapprincipio ero commosso, perché ero convinto che non avrei mai più avuto l’occasione di ascoltarli dal vivo. Ma poi, battuta dopo battuta, mi sono ricordato. Mi sono ricordato dei nostri sogni, di ciò in cui credevamo, in cui speravamo di crescere. Mi ricordo di Demetrio Stratos che racconta la favola della Mela di Odessa, ed in modo romantico ed infantile pensavo che sarebbe stato bello se la guerra fredda l’avessero vinta quelli che erano evidentemente dei perdenti.

“Are(A)zione”, 1975

Questo, ovviamente, era poco prima che capissi che l’Unione Sovietica era un incubo, un orrore di freddo, violenza, ingiustizia e sopraffazione. Gli Area rimangono perciò la band più romantica della mia gioventù, quella dell’amore per l’umanità – un amore proibito, deriso, non cattolico, ma ingenuo, impossibile. Perché i loro testi così appassionati, a volte criptici, erano accompagnati da una musica forte, decisa, che ancora oggi mi fa oensare all’orgoglio indomito delle soldatesse curde, le bellissime amazzoini che si battono senza un gemito per le loro famiglie, il loro credo, la loro patria, per la libertà.

L’Unione Sovietica era una truffa, ma chi credeva nella libertà non era un complice della grande truffa chiamata Guerra Fredda, era un membro pulsante di una società altra. Non paradisiaca, piena di difetti, ma con aspirazioni altissime, poetiche, legate ad un’idea di progresso compatibile, molto prima che Jean-Jacques Servan-Schreiber lo trasformasse in una teoria per il Terzo Mondo, un anelito paneuropeo lontanissimo dall’accolita di lobbysti e burocrati che è la realtà di oggi. Gli Area erano questo romanticismo, e molto di più: coraggio di gridarlo, capacità di trasformarlo in una formula estetica che coinvolgesse l’arte politicizzata della DDR, la robotica, la musica etnica mediorientale, il grido d’indipendenza greco, i balli popolari dell’Est e dell’Ovest.

Da sinistra: Paolo Tofani (chitarra); Demetrio Stratos (voce); Giulio Capiozzo (batteria); Ares Tavolazzi (basso); Patrizio Fariselli (tastiere)

L’unica volta che li ho sentiti dal vivo, che Demetrio era ancora vivo, ho ballato come un forsennato, tutto il tempo, ed alla fine mi pare che piovesse e che mi fossi innamorato di una ragazzina di nome ‘Cia, mocassini indiani, occhi neri, nessun trucco, braccialetti di cuoio ed una sciarpa arancione, rossa e verde smeraldo, che non ho mai più incontrato nell’intera vita. Ma la musica, quella non potevo più dimenticarla, e mi sono commosso di nuovo quando la mia band suonò per la prima volta una cover di “Luglio, Agosto, Settembre Nero”. Non esiste alcuna band che suoni o abbia mai suonato come loro, nessuno mai che avesse i loro contenuti, e non c’è mai stato un cantante come Demetrio Stratos.

Questo disco dal vivo, per giunta, è un capolavoro a sé stante, perché è tutto formidabile, testi, musica, registrazione, annunci della band. E perché fu un concerto davanti alla più bella gioventù che ci sia mai stata – la parte migliore e più ingenuamente buona di noi tutti. Piangendo di fronte ad una lettera d’amore palestinese, tintinnando le chiavi.

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