Musica
La musica bisestile. Giorno 41. Bob Marley & the Wailers
BABYLON BY BUS
Che esistesse il reggae, lo si sapeva già. Musica esotica, per popolazioni di isole fatate ma lontanissime. I Wailers originali, poi, composti da Bob Marley, Peter Tosh e Bunny Wailer, si erano formati nel 1963, quando Marley aveva 18 anni, ma hanno avuto bisogno di 15 anni per diventare famosi in patria, per poi uscire come consiglio “segreto” per specializzati dagli angusti confini dell’isola. Il passo successivo fu conoscere la fama a causa delle cover delle loro canzoni, realizzate da Manfred Mann, Bruce Springsteen e da altri, e poi essere lanciati dalla Island Records come i successori di Jimmy Cliff, ed i tour mondiali come apertura di Sly & the Family Stone ed Eric Clapton. Gente che fingeva di suonare il reggae, ma in realtà usava il ritmo in levare per i solti riff del country e del rock.
In questi 15 anni la band giamaicana ha scritto brani indimenticabili, registrati (direbbe Guccini) alla “boia di un Giuda, in una stanza d’altri vuota e spoglia”, ma soprattutto ha trovato un equilibrio tra basso, chitarra e percussioni, che per anni avevano creato più confusione che armonia. Avendo una situazioine tecnica di estrema povertà, l’unica strada era migliorarsi tecnicamente al punto da sopperire alla strumentazione rudimentale. Per cui, quando di colpo si trovarono al di là dell’oceano, in un contesto di discografici professionisti, si sentirono a disagio e reagirono con il tipico snobismo del complesso di inferiorità.
Per anni erano stati seguiti da Chris Blackwell, uno dei maggiori produttori della storia del rock, che con Marley litigava fino alle grida ed agli spintoni. Eppure Blackwell è stato colui che ha tenuto il reggae agganciato ai palati occidentali, legandolo allo ska ed al punk, ma lasciandolo unico ed irripetibile, con il suo basso che guida e la chitarra che suona in levare, e non in battere. E dopo questi 15 anni, finalmente, ha organizzato per i “suoi” giamaicani un tour mondiale come main act, e con brani in gran parte sconosciuti alle decine di migliaia di persone che, proprio in quel tour, impararono a conoscere Marley e la musica reggae – che infatti evitò di suonare hits, come “Redemption song” e “Buffalo soldier”, che fossero già state suonate come cover di successo, ma decise di impressionare con canzoni nuove.
Un grandissimo successo, quasi incomprensibile. Un successo culturale prima ancora che musicale. Il reggae divenne, nel giro di un solo anno, un modo di vivere alternativo per i giovani occidentali che schifavano il punk – e le cose non sono ancora cambiate, quasi 40 anni dopo. Un tour che è anche (quasi) il canto del cigno, dato che Marley morirà solo due anni dopo, di cancro, a 36 anni. Da allora il reggae si è stabilito come parte della cultura occidentale, e con gli UB40 è stato gravemente europeizzato. A mio parere, questo “Babylon By Bus” è l’unico disco reggae che bisognerebbe davvero amare e conoscere, il resto è paccottiglia. A me la retorica apparentemente e leziosamente terzomondista, alla Manu Chao (che non suona reggae, ma copia i Backstreet Boys vestito da Jovanotti giovane), mi rende aggressivo e sprezzante. Quando è moda è moda, diceva Gaber. Appunto.
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