Musica

La musica bisestile. Giorno 287. Antonello Venditti

26 Gennaio 2019

Nell’interminabile storia di amore, odio e furto d’opera tra Venditti e De Gregori, questo album costituisce finalmente una chiara delimitazione dello stile del primo, dopo il “matrimonio” artistico con Stradaperta

LILLY

 

Quante canzoni, ufficialmente di Antonello Venditti, sono state in realtà scritte da Francesco De Gregori? Lo sanno solo loro due, perché quando avevano una band insieme, i Theorius Campus, Venditti registrò alla SIAE, come proprie, tutte le canzoni del gruppo, sicché ci sono dubbi persino su “Roma capoccia”, che potrebbe in realtà essere stata scritta da De Gregori. Due personaggi estremamente antipatici, egoisti fino alla maleducazione, attaccati come tenie al ventre flaccido del loro successo artistico, sfruttatori di ogni aiuto e di ogni centimetro disponibile.

“Lilly”, 1975

Eppure autori, specie De Gregori, di grandissime ballate, specie in gioventù. Ora sono decenni (dalla Donna cannone) che né l’uno né l’altro tira più fuori qualcosa di veramente straordinario, tranne (per noi Romanisti) la canzone su Ago Di Bartolomei. Venditti, in quello che fu il disco registrato in America mentre veniva piantato da Simona Izzo (la figlia della più potente famiglia di doppiatori italiani, che lasciò Venditti per Maurizio Costanzo e poi anche quest’ultimo per Ricky Tognazzi), scrisse alcune righe più o meno sentite: “Scusa Francesco, suoniamo ancora un’ultima volta”. Poi la vecchiaia diminuisce l’importanza delle più grandi tragedie, ed oggi i due non si frequentano, ma hanno fatto pace, così come Gaber, alla fine, fece pace con Celentano,

Così ho avuto i miei dubbi nello scegliere il disco migliore della produzione di Venditti: se quelli registrati usando Stradaperta (che sono i più famosi, come “Buona domenica” e “Sotto il segno dei pesci”), o i primi, nei quali non si sa cosa sia farina del suo sacco e cosa no. Ed alla fine ho scelto “Lilly”, perché alcuni testi, come “Compagno di scuola”, che disapprovo, sono veramente di Venditti, così come “Penna a sfera”. Una persona che conosce entrambi i giovanotti mi dice che anche “Lo stambecco ferito” sia di Venditti, mentre su “Attila e la stella” le opinioni divergono. Ma alla fine una decisione va presa. Questo disco rappresenta certamente Venditii.

Del resto, non posso considerare un capolavoro una canzone chauvinista come “Sara”, oppure “Piero e Cinzia”, non ha senso scegliere “Grande Raccordo Anulare” di Guzzanti, e mi hanno sempre infastidito le canzoni dedicate a Simona Izzo. Amo “Grazie Roma”, ovvio, più ancora “Bomba o non bomba”. Ma il vero capolavoro di Venditti era e rimane, per me, “Mio padre ha un buco in gola”, che spiega tutto: la sua gioventù, quella dei ragazzi descritti in “Notte prima degli esami”, quella piccola borghesia dei burocrati romani, che ha riempito i licei negli anni della contestazione studentesca, ed ha macerato nel perbenismo ipocrita ogni possibile spinta veramente politica che fosse uscita dalle scuole – perché al liceo ci andavano i figli di quella borghesia, me compreso, e non i figli delle borgate.

“Lilly” è il disco della Roma di Clelio Darida, di Nevol Querci e Paris Dell’Unto, dell’assassinio di papa Giovanni Paolo I, dei misteri irrisolvibili, del rapimento Orlandi, e di migliaia e migliaia di ragazzini con in testa tanta allegria, folle e visionaria, che venne ridimensionata dalla realtà e dal burocratismo: compagno di scuola, compagno di niente. Il Venditti vero, quello “sul pezzo”, al centro degli eventi, è questo, non quello patetico ed autocelebrativo nato dal suo successo commerciale e dal fatto di avere una band alle spalle, Stradaperta, che gli permetteva di avere un sound, sia nei dischi che dal vivo, che in Italia avevano davvero in pochi, a parte gli eroi del prog. Oggi, quando canta, Venditti sembra sua nonna, fa pietà. Ma non può smettere. Ed allora “Lilly” è ciò che va ricordato, il bivio, giunto al quale Venditti fece la scelta giusta per sé stesso e quella sbagliata per la storia della musica italiana.

 

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