Musica

La musica bisestile. Giorno 264. Stan Ridgway

14 Gennaio 2019

L’imperiosa voce nasale del cantante dei Wall of Vodoo esplora, da esule ungherese, le storie notturne della New York degli anni 80

MOSQUITOS

 

La sua famiglia era scappata dall’Ungheria nel 1956, ai tempi della tentata rivoluzione anti-comunista, schiacciata nel sangue dai panzer bolscevichi, e lui, che aveva solo due anni, di quei tempi ricorda solo l’odore della paura, vedere i propri genitori spaventati a morte, il lungo viaggio verso l’ignoto, e questo gli portò, per tutta la vita, una sensazione che lui descriveva così: “Quando scegli di fare qualcosa in cui rischi, non importa cosa, non importa quanto, ti affidi ad una forza che è fuori da te, che puoi chiamare destino o ritmo dell’universo, che poi tu intellettualizzi e ricordi come qualcosa di comprensibile, come una persona che ti dà una mano, una circostanza fortunata, una coincidenza. Invece era questa forza fuori di te, che comprende noi tutti, e decide chi sostenere e chi abbandonare”.

“Mosquitos”, 1989

Durante gli anni di scuola Stan si innamora del Wall of Sound di Phil Spector. Costui era un musicista ed un produttore, sostenitore della teoria secondo cui mono fosse meglio che stereo, e che le registrazioni dovessero essere costruiti con la sovrapposizione di frequenze studiate con grande attenzione e ridondanza, il cui scopo era di ottenere un grande Muro del Suono, una superficie inattaccabile che ti riempisse il cuore e la mente, ma non con il ritmo, quanto con l’onusta rotondità del suono. I suoi principali “seguaci” erano The Righteous Brothers (“You’ve got this loving feeling”), ma poi seguirono le Ronettes, il primo Leonard Cohen, i Ramones, Ike & Tina Turner, e persino gli ex Beatles (George Harrison e John Lennon).

Spector prendeva questa teoria dalla musica wagneriana e dalla possanza della pressione costruita dalle orchestre che suonavano quella sua musica, e Stan Ridgway, ragazzo, fece una band chiamata Wall of Voodoo, che con strumenti rock, più fisarmonica ed altri strumenti della musica etnica, registrava per l’appunto secondo i dettami della teoria di Phil Spector (che nel frattempo era già in prigione, sta tuttora scontano un ergastolo per l’omicidio di una ragazza). La caratteristica dei Wall of Voodoo era che cercavano di fare il pop degli anni 80 con un concetto così complesso alle spalle e, a mio parere, erano insopportabili, e Stan peggio di tutti, che ha una voce gracchiante e per nulla utile per un qualcosa che doveva battersi con gli Wham ed i Cure. Fatti suoi.

La band gli esplose tra le mani, e lui aveva altre canzoni non registrate. Soprattutto una era importante, e riassumeva tutta la tensione infantile di Stan: “Camouflage”, la storia del fantasma di un US Marine che, nella jungla del Vietnam, aiutava soldati americani che si erano persi a ritornare sani e salvi alla loro unità. La canzone è una ballata country epica, che divenne subito un enorme successo internazionale, e procurò a Stan un contratto per tre dischi, che lo lanciarono ad essere una sorta di Billy Bragg della borghesia, uno che, col tono con cui gli altri parlavano di operai, parlava di borghesia rampante, di solitudine, di benessere economico e della sua futilità, dell’incapacità di decidere sulla propria vita, costretti sempre a seguire il destino, come accade al bandito di “Going southbound”, che è il singolo di questo album che ho scelto, e che contiene, a mio parere, le cose migliori di Ridgway, scritte come gli venivano, e non credendo di dover rivelare chissà quale verità. Naturalmente ho aggiunto “Camouflage”, che è del disco precedente, perché è un brano fondamentale della storia del pop. Nel frattempo Stan è diventato uno dei più richiesti scrittori di colonne sonore per il cinema, vive molto ritirato e non canta più. Non voglio che venga dimenticato.

 

 

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