Musica
La musica bisestile. Giorno 242. Neil Young
Uno dei pochissimi giganti della musica americana che sia ancora rimasto in circolazione. Un orso burbero e scostante, che ha scritto molte delle ballate più belle del Novecento.
HARVEST
È sempre stato molto orso, dopo essere cresciuto come timido e schivo ragazzone in Canada con la mamma, abbandonata dal padre, ed un ukulele – prima di plastica, poi vero. Conobbe Joni Mitchell perché, come lei, girava nei bar suonando per pochi dollari. Lei era riuscita ad avere una vera amicizia con lui, che durerà tutta la vita, perché probabilmente lo capiva. Due ragazzi dei boschi. Lui, già nel 1970, aveva messo tutti i soldi che aveva guadagnato con la musica per comprare un ranch, e da allora lui ha sempre investito nella terra, nei cavalli, nei bovini.
Dopo due relazioni brevi e burrascose, a 29 anni aveva conosciuto Pegy, la cameriera di un baretto, con cui ha passato 36 anni, ha cresciuto tre figli portatori di handicap, ed ha fatto musica, ha girato il mondo, ha passato settimane in tarda primavera nei boschi del Canada, dell’Argentina, della Bolivia, da soli. Come ha sempre raccontato, nessuna persona al mondo sapeva non dir nulla come Pegy, ed aver detto tutto ciò che contava. Si sono lasciati quando entrambi avevano 65 anni. Lui aveva incontrato l’attrice Daryl Hannah e, per la prima volta, aveva deciso di andare a vivere in città, a Los Angeles.
Ma questo disco arriva da un tempo in cui Neil non aveva nemmeno incontrato Pegy, ma viveva in roulotte, o nei motel, perché era negli Stati Uniti senza permesso di soggiorno. Aveva conosciuto il grande successo internazionale grazie ai Buffalo Springfield, ma aveva mollato la band perché non sopportava la boria di Stephen Stills, e quindi si era messo a cantare le sue canzoni con una band locale, i Crazy Horse, come accompagnamento. In quella band c’era Danny Whitten, l’autore della splendida “I don’t wanna think about it”, ed il contatto glielo aveva procurato Joni Mitchell, che abitava ora a Los Angeles ed era la fidanzata di Graham Nash. Lei lo aveva convinto a suonare con Crosby Stills & Nash, e lui ce l’aveva fatta per due anni.
Ma poi le liti con Stephen Stills tornarono più veementi di prima, e quindi lui era andato alla Reprise (la casa discografica di Frank Sinatra e Frank Zappa, in quel momento), che gli mise a disposizione tutto lo spazio che lui avesse voluto. Lui registrò, in pochi giorni, “After the gold rush”, un disco ancora molto country, ma che fu un successo mondiale inatteso – da lui. Sicché, mentre ancora stava in tour, stavolta senza doversi nascondere, perché aveva avuto una “green card”, aveva scritto una dozzina di nuove canzoni, che sono quelle poi registrate in “Harvest”. Lui le aveva presentate in due serate, una alla Carnegie Hall di New York, una alla Massey Hall di Toronto, in cui era venuto con solo chitarra ed armonica a bocca, e la gente era impazzita.
Per presentarvi il disco, dove ho potuto, ho scelto le versioni delle canzoni come suonate dal vivo alla Carnegie Hall. Si tratta, come tutti sanno, di uno dei dischi più belli e più famosi mai prodotti nella storia della musica popolare moderna. Un disco che ha fatto storia, un disco su cui milioni di ragazzi hanno imparato a cantare ed a suonare la chitarra. Un disco, in cui ogni canzone ha una storia, un motivo, un dolore (come “The needle and the damage done”, scritta nel giorno in cui il suo amico Danny era morto di overdose di eroina, oppure “Old man”, scritta per Louis Avila, il capo mandriano del suo ranch, o magari “A man needs a maid”, dedicata alla ragazza con cui viveva allora), ed un senso. Dopo quel disco, Neil Young ha avuto una carriera eccezionale, ma a mio parere, proprio in quel momento, qualcosa si era rotto. Non ci sono mai più stati momenti di quella perfezione e, comunque, il ranch e la famiglia divennero il centro del suo interesse. “Harvest” resta quindi una pietra miliare, un momento magico, un ricordo imperituro.
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