Musica

La musica bisestile. Giorno 187. I Nomadi

7 Dicembre 2018

A volte, quando si pensa agli anni 60, ci si dimentica di questa che è stata, per lungo tempo, la migliore band italiana, l’unica ad aver ottenuto il risultato di unire la musica cantautorale con il rock classico. L’ho scelta, naturalmente, agli anni in cui cantava anche il nostro vecchio caro Augusto Daolio

COLLEZIONE

 

Mentre la pubblicità si ostinava a raccontare che l’Equipe 84 fosse la più importante band di beat italiano, io avevo già donato il mio cuore, e non me ne sono mai pentito. Ho ancora in mente le prime foto di cinque ragazzini bolognesi, e quella tenera cornacchia di Augusto Daolio davanti a tutti, che si vedeva chiaramente che le mamme avessero dato loro, oltre a magliette e calzini puliti, anche i gettoni per telefonare in caso di guai ed un panino con la mortadella, che non si sa mai.

“Collezione”, 1976

Perché i Nomadi puoi paragonarli solo ai più grandi di tutti, perché cantavano Guccini quando Francesco ancora girava per le balere con la R4, perché avevano accettato di fare una cover (“Ho difeso il mio amore” da “Nights in white satin” de Moody Blues), ma poi cantavano canzoni serie, impegnate, con melodie straordinarie ed una passione che andava dritta al cuore. Mai patetici, ricordo che fossi piccolissimo e “Pugno di sabbia” la conoscessi già a memoria e mi immaginassi che fosse il simbolo vero e non esagerato delle delusioni d’amore. Quando ero adolescente, “Voglio ridere” era un inno, perché era proprio ciò che mi veniva spesso da dire, quando finiva male con una ragazzina che, poverina, era impacciata ed infantile come me, e mi trattava male per paura che io facessi soffrire lei.

Quand’ero vecchio, ed ognuna di quelle ragazzine, nel frattempo, erano tornate, fuori tempo massimo, a dirmi che sapevano che avrei riso, perché loro mi avevano pianto e rimpianto, amavo ancora la canzone, ma non mi è mai venuto da ridere. Perché con Augusto era tutto così, era il sentimento nudo e crudo, lo sconcerto, lo stupore di fronte alla consapevolezza di essere indifesi di fronte ai grandi avvenimenti della vita, ma lucido abbastanza per poterne raccontare. Su “Io vagabondo” non c’è nulla da dire, spero.

Chi non adora alla follia questa canzone dovrebbe ascoltare solo Fedez e Pupo, e rinunciare alla musica, perché gli manca qualcosa di fondamentale nel codice genetico. Ma il brano che preferisco è un altro, che prima di essere inserito in questa raccolta, era stato pubblicato solo a 45 giri, ed io non l’avevo comprato – già a 15 anni preferivo gli album. Ce l’aveva Silvia, 13 anni, enormi occhi neri. Io ero a casa sua e le facevo la corte in modo impacciato ed inequivocabile, con i suoi tre fratelli maschi che mi sfottevano e lei che era sempre paonazza per l’imbarazzo. Lei lo mise sul giradischi e mi disse: “Ascolta”.

Una pugnalata, perché mi parlava già allora di nostalgia, dei miei pensieri, della mia paura di essere troppo distante dalle persone che avevo intorno, di essere un matto che si appassionava a cose che non interessavano a nessuno. Silvia ascoltava ad occhi chiusi, dondolando il capo, ed alla fine disse: “Vedi? Sei troppo vecchio per me”. Naturalmente non so nulla di lei e della sua vita, e l’estate successiva ero inutilmente innamorato di una ragazza del mare. Ma la canzone no, non l’ho dimenticata, e quando la canto oggi, e magari riesco a trattenere i goccioloni, mi rendo conto che la musica si divide generalmente in tre parti: la merda, la perfezione che parla alla tua anima, e l’imperfezione che parla al tuo cuore. Augusto Daolio e “Quanti anni ho” sono il simbolo di questa terza via. Ed io sono fortunato, perché Silvia me la regalò (idealmente), insieme al fardello connesso, quando ero giovane abbastanza per restarne consapevole sempre.

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