Musica
La musica bisestile. Giorno 186. The Psychedelic Furs
Fecero un disco straordinario, a cavallo tra la new wave ed il rock americano, e poi, cambiato il produttore, scomparvero nuovamente
MIRROR MOVES
Richard e Tim Butler erano due ragazzini londinesi con una punk band uguale a mille altre, nella seconda metà degli anni ’70, ed erano i due figli di George ed Irina Butler: una pittrice lei, uno scienziato lui, entrambi comunisti, entrambi torturati per anni col dubbio se non fosse meglio e più giusto emigrare in Unione Sovietica. Non ottennero un permesso di soggiorno. I Russi non si fidavano di loro, e per Richard e Tim questa è stata una salvezza. Ribelli, fortemente inclini a mettersi nei guai, rissosi, giravano i pub con la loro band di scalzacani ed erano felicemente infelici, come si può essere a 20 anni.
La svolta fu la grande amicizia con Duncan Kilburn, che suonava il sax. Per far entrare lui nella band gli altri furono costretti a cambiare sound, a cercare qualcosa che non fosse pop ma che restasse il più possibile legato al punk. In un concerto ad Exter li notò Steve Lillywhite, uno dei più grandi produttori inglesi di sempre (U2, Rolling Stones, XTC, Peter Gabriel, Pogues, Morrissey, Talking Heads e potrei continuare per dieci righe…), che li trovò interessanti ed offrì loro di diventare l’alternativa “sporca” agli Spandau Ballet – e produsse un primo disco, guidato dal singolo, “Sister Europe”, che entrò nei primi 20 in tutta l’Unione Europea, Italia compresa. Con i soldi guadagnati, Richard e Tim allargarono la band e cercarono un sound il più possibile diverso dall’ondata new wave, nella quale rischiavano di essere risucchiati.
Fecero il secondo disco con Todd Rundgren, che naturalmente li spinse nella direzione opposta e loro, nel terzo disco, scelsero un produttore di punk, Keith Forsey, che si era innamorato dei sequenzer ed è stato uno dei pionieri dell’elettro-punk. Sicché questo terzo disco, “Mirror moves”, è diventato un capolavoro ed una pietra miliare, proprio perché è stato precursore nel campo del rock elettronico. Io avevo ascoltato “Heaven” su MTV ed ero quindi andato ad un loro concerto estivo, nemmeno ricordo più dove, e ne rimasi veramente impressionato. Mi sembrò che dopo i suoni involuti di Gary Numan e troppo pomposi di Howard Jones, finalmente si fosse intravista una nuova via. Tanto che all’inizio pensavo che fossero americani.
Ma purtroppo quel disco è rimasto un momento isolato. La band esiste ancora, ma da allora in poi sono divenuti irrilevanti. Peccato, perché credo davvero che avessero la stoffa e “The ghost in you” è un vero capolavoro, che infatti rimase per diverse settimane in testa alle classifiche di tutto il mondo.
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